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Archivi del mese: febbraio 2009
Come ti tutelo le tute
I numeri non piacciono, alla gente. E’ distratta, si confonde, non ha voglia di riflettere sulla cifra udita per capirla, comparandola ad altre udite in altre situazioni, e farsene un’idea precisa. Quando si seppe, ad esempio, che per il terremoto irpino del 1980 erano stati erogati 60.000 miliardi (di allora) la gente non capì bene. Avevi un bel ripeterglielo, al massimo allargava le braccia: “eh…le solite ruberie, i soliti furbastri…” Macché ruberie, macché furbastri! Fu una rapina colossale, biblica, grazie alla quale la camorra e il sottobosco politico locali fecero un decisivo “salto di qualità”. Quella cifra, ai prezzi di allora, equivaleva al costo di costruzione di un milione di alloggi, come dire 500 (diconsi cinquecento!) paesi nuovi di pacca, consegnati chiavi-in-mano.
Comincia a capire ora, la gente. Forse. Perché vede che in Campania dopo 29 anni ci sono ancora baraccati nei containers mentre 60mila miliardi sarebbero bastati per dare duecento milioni in mano ad ogni terremotato, neonati compresi. Ma ormai è tardi per indignarsi, supposto che serva. E la giostra continua. Pomigliano d’Arco è da giorni ostaggio dei 5000 lavoratori Fiat, preoccupati del destino industriale campano.
A Torino la feroce ne ha sbattuti per strada dieci volte tanti, senza che facessero tutto quel casino, ma se uno si ricorda dei 5000 “disoccupati organizzati” assunti (inutilmente) da Bassolino durante l’emergenza-rifiuti capisce che è proprio quello, il punto. Gli operai napoletani rifiutano la cassa integrazione perché sanno che prima o poi lo Stato (o la Regione) cederà, e gli concederà la pensione anticipata o li sistemerà qui e là come dipendenti pubblici fissi. Vogliono i soldi, sicuri e reversibili, al 27. Vedrete, dopo, come se ne fregano del “destino industriale campano”.
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E il treno va…
Ci sono ancora frutti da raccogliere, nella sera della vita. Stante che il sole sparirà comunque dietro l’orizzonte, e nessuno lo può fermare, tanto vale fermarsi a guardare quanto può essere bello il tramonto. Anche gli acciacchi, i dolorini, le amnesie… per ognuno di essi c’è la prima volta, poi la ribellione, e infine la rassegnazione. Bisogna saperli vedere come piccoli piaceri che ci fa il Grande Spirito, quello che ha mandato Catlin-a a prenderci (la sentiamo che è già sotto, davanti al portone, col motore acceso…) per farci sembrare meno bella la festa ora che dobbiamo lasciarla. Tanto, saliremo sulla sua nera limousine per andare ad altre feste, di altri mondi, in altre dimensioni…
E poi è dolce ripensare a quando magna Lia cercava dappertutto (dicendo “sacocìn, andoa l’hai butàje?) gli occhiali che aveva sul naso, o nonna Nora mi chiamava col nome di mio fratello, o madama Rossi arrivava tranfiando come una vaporiera dopo aver fatto i pochi scalini che noi salivamo di corsa cento volte al giorno… E la mamma, gli ultimi tempi, quanti piccoli ‘ahi’ scendendo dalla macchina! Basta lasciarsi andare, farsi cullare e trasportare dall’onda, senza sforzarsi di nuotare contro corrente. Galleggiare…
Il 20 Febbraio scorso era il 42° anniversario del mio matrimonio. Quanti me ne ricordo, di anniversari! Celebrati in tutti modi: cene con la famiglia, cene canterine con gli amici, viaggi, feste, tête à tête a lume di candela in ristoranti di lusso, fiori, regali… eppure questo è stato il più bello. Di una dolcezza infinita. Perché entrambi ce ne siamo completamente dimenticati. Ma che tenerezza, il 22 sera dopo cena, veder arrivare Anna sul divano a vedere Sky con me, dicendo: “pensa, due giorni fa erano i 42 anni di matrimonio, e non ce ne siamo ricordati” e scoppiare a ridere entrambi, abbracciandoci, con la stessa complicità che ci impedisce a vicenda di sentirci russare (e pur russiamo!) perché per ognuno dei due il russare dell’altro è assimilato all’ambiente, alla natura, rassicurante e familiare come il rumore del treno per un casellante.
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Antiamerican graffiti
Ritrovo, copiate su una vecchia agenda, alcune delle frasi scritte dai no-global nel novembre del 2002 alla manifestazione di Firenze. In previsione di un altro “Genova G8 show” tutti i negozianti lungo il percorso del corteo non s’erano accontentati di abbassare le serrande, ma le avevano blindate con robuste coperture d’assi inchiodati, come fanno in Louisiana quando sta per arrivare un uragano forza 5. Gli amici di Agnoletto non avevano spaccato nulla, ma avevano scritto su quelle blindature i messaggi di pace che io trascrissi: «Figlio di troia, oggi ci trombiamo tua mamma, figlia e moglie… fate attenzione, il peggio deve ancora venire… hai sprecato i soldi, coglione, se volevo in 5 minuti ti sfasciavo tutto… puzza di merda in questa via, sono i negozi della borghesia… non avrai più un soldo da me, da oggi sono un tuo ex cliente…».
Non stupitevi che fra i dimostranti ci fossero dei clienti di Gucci: i no-global hanno la stessa omogeneità politica che si può attribuire ai biondi o ai grassi. Ricordo che allora Fassino rivendicò il “successo” della manifestazione, e non intendeva alludere al numero dei mobilitati, ma al fatto che non avessero distrutto “quasi nulla”. Attribuendosi il potere di vietare il casino, però, il papavero del PD (al tempo ancora PDS) fece dedurre agli italiani che il casino, quando c’era, era voluto dal PDS. Quella volta i no global fecero i finti ingenui (della serie: “avete visto? Noi siamo pacifici, il casino succede sempre per colpa della polizia…”) e appesero ad ogni vetrina blindata una rosa di stoffa (tra l’altro fatta in India, alla faccia dell’antiglobalismo) col un cartello prestampato che diceva “questo è tutto il male che sappiamo farvi”.
Chi credevano d’incantare? Fu comodo, per gli agnoletti, trasformarsi in agnolotti dopo aver saputo che ad affrontarli erano pronti 6500 poliziotti in assetto di guerra, più il poderoso servizio d’ordine del PDS (quello poi vantato da Fassino). La trovata delle rose di stoffa fu solo una furbacchiata mediatica, decisa di fronte all’obiettiva difficoltà di spaccare e magari (perché no?) anche di fronte al fascino di Firenze. In fondo persino i nazisti, scappando nel ’44 davanti agli americani (sì, ci liberarono loro da Hitler, ricordatevelo, cari compagni mangia-yankees) si astennero dal far saltare, con gli altri, il Ponte Vecchio
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A corto di corte
Le donne si lamentano che gli uomini vanno subito al sodo, e non sanno più corteggiare. I maschi, a loro volta, dicono che è inutile perder tempo a corteggiare femmine che hanno perso il senso del pudore, sono sfrontate, esibizioniste, e si offrono senza inibizione nelle spiagge, nei locali notturni, nelle feste, forse per adeguarsi al modo in cui vengono presentate dalla pubblicità, dalla Tv (veline, letterine, miss…) e dai mass media in genere. A Genova è successo un putiferio per il “bus ateo”, ma quando giravano per Torino, qualche anno fa, bus tappezzati di chiappe femminili nude nessuno banfò. Era la réclame di non ricordo cosa, e questo già conferma che l’assuefazione al nudo avanza: ce ne vogliono dosi sempre più massicce per destare la nostra attenzione.
Il famoso manifesto di “Roberta”, la fabbrica di slip che sdoganò sui muri la natica spyder, chi ha i capelli grigi lo ricorda bene. Ma era trent’anni fa. Adesso ce ne vuole una fila, di chiappe, per distrarci. E molto più scoperte di quelle di Roberta. Anzi, totalmente scoperte, salvo quel triangolino di stoffa sul còccige detto “pass” perché fa sì che i culi non siano “tecnicamente nudi”, e quindi possano andare in video o sui manifesti. Ricordate quei gay processati a Toronto per aver sfilato nudi e assolti perché portavano scarpe e occhiali, quindi non potevano “tecnicamente” essere definiti nudi? Pareva assurdo e invece, col triangolo-pass, siamo lì…
Le lotte contro il pudore sono ipocrite. Anche Men e Playboy, nei primi numeri degli anni ’60, spacciavano in dotti articoli per “liberazione dall’oscurantismo” quel che era e resta solo pirateria. Solo bramosia di penetrare negli ultimi fortini ancora presidiati dal pudore per raccogliere (e monetizzare) le riserve di sdegno, stupore e attenzione prima che l’assuefazione le inaridisca. Perché il pudore è anche forma, e l’informale è sempre stato simpatico. Peccato che alla prima, simpatica e sorprendente trasgressione segua sempre la frana, lo sbracamento più becero, in tutti i campi. Parafrasando la massima inglese: “nessun gentleman giocherebbe mai a golf in braghe corte, ma solo un gentleman saprebbe farlo” si può dire che non è il culo in sé a infastidire, ma la tracotanza bottegaia con cui viene esibito.
In questa corsa senza regole ad arraffare i frutti caduti dall’albero scosso della forma, prima degli altri e prima che vadano a male, si inseriscono a pieno titolo figure come il pensionato baby, l’assenteista, il falso invalido, che non provando la minima vergogna finiscono per incoraggiare e legittimare la pubblica corruzione. Un po’ come succede a Domenica In quando la Rai regala per fare audience migliaia di euro con quiz telefonici in cui non solo vengono fatte domande spudoratamente facili, ma si bara, si danno “aiutini”, si passano per buone le risposte errate. Tutto questo facilume, questo sguaiato ammiccamento prepara il terreno alle televendite truffaldine e queste, a loro volta, alle Vanne Marchi e alle cartomanti. Siamo a corto di corte, non di carte.
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Scacco alla torre, di cavallo
Ricordate l’apologo del cavallo caduto senza farsi male in un pozzo asciutto? Il padrone aveva deciso di seppellirlo vivo per prendere due piccioni con una fava: disfarsi della bestia ormai vecchia e riempire di terra il pozzo ormai inservibile. Senonché il cavallo, ad ogni palata che arrivava, se la scrollava di dosso e ci saliva sopra, e così facendo era giunto in poche ore all’altezza sufficiente per saltar fuori. La morale sarebbe che nella vita a volte capita che gli altri ci buttino palate di terra addosso (specie se siamo in fondo a un pozzo), ma se non ci diamo per vinti e imitiamo quel cavallo possiamo uscirne, perché ogni problema, ogni peso con cui cercano di soffocarci, può diventare un gradino per risalire.
Pensavo a questo apologo a proposito del gioco della torre, così spesso proposto dagli intervistatori per mettere in imbarazzo gli intervistati. Ricordate? “Sei su una torre con Tizio e Caio e devi buttare giù per forza uno dei due. Chi scegli?”. Io risponderei “entrambi”, e alla sorpresa dell’uditorio proseguirei: “Vede, m’è capitato così spesso che un intervistatore vuoto di fantasia ma pieno di cattiveria come lei mi obbligasse a buttar giù amici dalla torre, che ormai il mucchio dei loro cadaveri è giunto quasi sotto i merli. Ora posso buttare giù chiunque a cuor leggero, perché so che non si farebbe male”.
La morale? Potrebbe essere questa: che a volte chi muore prima di te ti salva, anche senza volerlo, dal fare la sua stessa fine. Oppure che insistendo troppo con la crudeltà si finisce per renderla inefficace. O ancora che persino il male più orripilante, come un mucchio di gente assassinata, può tramutarsi in bene. Scegliete voi. A me basta farvi capire come è facile giocare con gli apologhi, con la morale, coi problemi e persino con la morte. Quando riguarda gli altri.
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Congresso a Capri, con l'amante spesata
La spesa sanitaria in Italia è fuori controllo, e si pensa di indagare sugli informatori scientifici, come se la causa fossero loro. Invece sono solo dei commessi viaggiatori. Si son dati una qualifica altisonante, ma quel nome “informatore scientifico” sta a “piazzista di medicine” come non vedente sta a cieco. Stessa roba. A informare i medici sui farmaci basterebbe il “bugiardino” o una qualsiasi delle guide farmacologiche di cui sono omaggiati. Il guaio è che le case farmaceutiche li omaggiano anche di altro.
Dalle innocenti biro ai bonifici in nero “estero su estero”, attraverso Tv, Hi-Fi, gioielli, viaggi in posti esotici camuffati da congressi, accessori d’abbigliamento… tutto per indurli a prescrivere una medicina al posto di un’altra analoga. Questa tecnica di “persuasione a premio” si chiama comparaggio, e il controllo si fa sui tabulati di vendita delle farmacie di zona. E’ anche vietato dalla legge, ma è una piaga cronica, inguaribile. C’è chi marcia per la pace e chi ci marcia sul pace-maker. D’altra parte, se la legge vieta alle case di farsi réclame, loro spingono le vendite come possono…
Così, quando ci viene prescritto un farmaco, non è affatto detto che sia il migliore per noi, ma è facile che sia il più conveniente per il medico. Forse serve, ma ce ne sono di più efficaci. Oppure non serve, ma almeno non fa male. Il vero guaio è quando non serve, e fa pure male. Per le case farmaceutiche conta solo che corriamo in farmacia ad alzare i tabulati (e da quando molte medicine sono gratis noi lo facciamo senza sforzo), mentre molti medici di base trovano comodo fare solo i redattori di ricette. Il problema è che togliere l’obbligo di prescrizione sarebbe anche peggio. Gli ipocondriaci si avvelenerebbero senza più controllo, e la gente chiederebbe consigli, anziché al medico, al farmacista. Gli omaggi delle case finirebbero a lui invece che al dottore, e tutto proseguirebbe come prima.
Le case, poi, ci inonderebbero di spot per convincerci che siamo malati, e abbiamo bisogno dei loro prodotti. Succede già ora, su vasta scala e subdolamente, con strumenti raffinati quali congressi, pareri di luminari cointeressati e pubblicazioni “pilotate” su riviste mediche autorevoli. Da queste la “nuova” malattia passa alle trasmissioni Tv, ai quotidiani, alle riviste di fitness, e la casalinga si scopre affetta dalla “sindrome di stanchezza cronica” o da qualche altra diavoleria inventata di sana pianta. Non è fantascienza. Negli States lo sdoganamento degli antidepressivi per i bambini troppo “vivaci” è iniziato così.
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Disonorevole wrestling
Avete presente il wrestling? Quella specie di lotta in cui dei giganti dai muscoli gonfiati e dal look improbabile (tute da diavolo, chiome da barbari, maschere leopardate…) fingono di darsi botte da orbi, di saltarsi addosso, di strozzare gli arbitri? Ogni tanto, facendo zapping per evitare la pubblicità di Sky, ci casco sopra. E senza accorgermene, mi lascio prendere dallo spettacolo. Mi fermo per vedere cosa fanno, per indovinare chi vince, per divertirmi a tifare a caso… dimenticando la cosa più importante: che è tutto un trucco, tutto combinato prima, tutto una sceneggiata. Solo una cosa è certa: che quelli sul ring fanno i soldi e quelli sugli spalti li perdono. Pagano per farsi prendere in giro.
Bene. Qui in Italia accade lo stesso con la “politique politicienne” (la bassa cucina politica). Uno guarda l’incontro di wrestling fra destra e sinistra, si lascia ipnotizzare dallo spettacolo (le false contrapposizioni ideologiche, le mosse scorrette, gli arbitri imparziali, le dichiarazioni roboanti) e dimentica che è tutto combinato, che fra bugie, intrighi, trucchi, false promesse, salti della quaglia, inciuci, ci guadagnano solo i politicanti sul ring e ci perdono sempre i cittadini sugli spalti.
Il libro “La casta” non è servito a un cazzo. E’ tutto come prima, anzi, peggio. Abbassare gli stipendi dei parlamentari? Se li sono aumentati. Abolire le province? Ne han fatte di nuove. Eliminare le comunità montane? Manco parlarne. Proprio oggi la Regione Piemonte ha trasferito ad esse “importanti competenze” per giustificarne l’esistenza e salvarne gli stipendi. E non sto a dire che la Regione Piemonte è rossa, se no casco di nuovo nell’equivoco del wrestling. Sono tutti uguali, quelli della casta. A destra come a sinistra: tutti d’accordo. E datemi pure del qualunquista. Ma prima smentitemi.
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Cloniamoci così, senza rancor
Ho visto in Tv la conferenza stampa di Veltroni: aveva l’aria… dimessa. Ho visto anche quella di Berlusconi: aveva un sorriso… sardonico. E dài, non incazzatevi, compagni, erano solo battute… no, non nel senso di batoste… erano motti ironici… cazzo… ma ci avete proprio i nervi a fior di pelle, nèh? Comunque, battute a parte, la clonazione di Obama in Italia non vi è riuscita. Gliettutto darifà. E figuratevi se riusciva, dato che è già morta anche Dolly, la prima pecora clonata. Sembra facile clonare…
Per gli uomini, poi, è una totale assurdità: il clonato non sarebbe mai uguale al clonante, se non per mera struttura molecolare. Il carattere, infatti, è dovuto solo in parte al dna, ma per il resto si forma durante la crescita attraverso le esperienze, soprattutto quelle neonatali e infantili. Siccome è impossibile far rivivere quelle fasi di vita al clonato esattamente come le aveva vissute il clonante, il suo carattere sarà per forza diverso.
Mi spiego meglio: probabilmente in futuro si potrebbe anche, sotto l’aspetto tecnico-biologico, fabbricare un clone esatto di D’Alema (anche se sarebbe un’impresa da masochisti), ma essendo impossibile fargli rivivere tutte le frustrazioni che deve aver patito il vero baffino durante la sua infanzia pugliese, questo clone correrebbe il rischio di crescere addirittura simpatico, modesto e sincero. Del tutto inadatto, quindi, a guidare la sinistra italiana.
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Beneficenza sì, ma dedotte le spese
San Valentino, Natale, Halloween… ogni ricorrenza, di antica tradizione o di recente adozione, viene opportunamente enfatizzata dal sistema commerciale per indurci a spendere. Ma lì sappiamo come muoverci. Quello che invece ci spiazza è il dilagare di pubbliche collette, derby del cuore, maratone benefiche in Tv… Sono sempre più numerose le associazioni per la lotta a questo o a quel morbo che dopo una martellante pubblicità sui media ci attendono la domenica “nelle principali piazze italiane” per venderci frutta, fiori, piante “il cui ricavato sarà devoluto eccetera”. La maggior parte di esse è certamente al di sopra di ogni sospetto, ma nessuno spulcia mai i loro conti, altrimenti scoprirebbe che il “ricavato” da devolvere alla ricerca s’intende sempre come “incasso meno spese”.
Ed è proprio lì, sulle spese, che casca l’asino. O almeno cala la nebbia più fitta. A volte, essendo carente (o del tutto mancante) la manodopera volontaria nell’associazione promotrice, le “spese dedotte” sono le fatture (se ci sono) del soggetto giuridico (associazione, azienda, cooperativa) cui è data in appalto la parte “pratica” dell’iniziativa benefica, cioè la pubblicità, l’acquisto del prodotto da vendere in piazza, il personale, le strutture, i trasporti, la contabilità, eccetera. Non ci sarebbe nulla da eccepire, se non fosse che questi “soggetti giuridici”fanno capo o appartengono quasi sempre (per comodità e sicurezza, ovviamente…) a parenti, amici o conoscenti dei capi o di membri delle associazioni che indicono le “giornate della lotta a…” e che pagano le loro prestazioni senza badare al risparmio. Solo quel che avanza (quando avanza) va allo scopo benefico dichiarato.
Un esempio per tutti: il business della raccolta a domicilio di abiti smessi e oggetti usati. Si sa da anni che è una truffa, tant’è che poi quella roba la ritroviamo regolarmente nelle boutiques di abbigliamento vintage e nei negozi di modernariato. Ed è talmente lucrosa, quella truffa, che per attuarla non solo vengono “affittate” le firme degli enti benefici più in vista (da mettere in calce al foglietto che troviamo affisso accanto alle cassette delle lettere), ma si creano addirittura associazioni “benefiche” ad hoc. E dire che basterebbe una leggina semplice semplice, che obbligasse chi chiede offerte (in natura o in soldi) per beneficenza a lasciar spulciare i suoi conti da chiunque lo desideri. Ma è più facile che il Toro rivinca lo scudetto che una legge simile sia votata.
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San Valentino, Sant'Armani e San Gucci
Perché non gettiamo la maschera, e facciamo sponsorizzare la festa degli innamorati al maggior offerente? Ogni anno un nome diverso, San Versace, Sant’Armani, San Luigi Vuitton… Basterebbe deciderlo col giusto anticipo, come le Olimpiadi, che tra l’altro sono già state “comprate” dalla Coca Cola nell’edizione del centenario (Atlanta 1996). Dovevano toccare ad Atene, ma l’assegno della multinazionale di Atlanta era così grosso che il Cio ha dimenticato di colpo De Coubertin, la tradizione ellenica e tutto il resto. Perché seguitiamo a celebrare il 14 febbraio (ricorrenza utile solo ai negozianti ed ai fiorai) fingendo che l’amore abbia bisogno d’una data precisa per essere festeggiato? Come la festa della mamma, del papà, dei nonni… sono solo mode americane. Anche se ormai hanno colonizzato il mondo.
Così ci scambiamo rose di semaforo, sms preconfezionati, e-mail con le faccine e cuoricini su Facebook, ma l’amore “quello vero” ci manca. “Quello” è misterioso, odora di Dio. Se è stato scritto che Dio è amore, verità e vita, è perché quelle sono cose misteriose, che non riusciamo a conoscere a fondo. La verità è sempre relativa, e della vita siamo certi solo come contrario della morte. Sappiamo che inizia “da” e finisce “in” un nulla di cui abbiamo paura da sempre, un vuoto che possiamo riempire solo con la fede. Persino le bestie ne han paura. Chiedete nei mattatoi che espressione hanno quando si avviano a ricevere il chiodo nel cervello…
E mentre noi fatichiamo a penetrare il mistero di questo sentimento divino, ecco arrivare dagli Usa (da dove se no?) un test di 130 quiz che dovrebbe guidarci alla scelta dell’amore giusto. Io magari lo farei anche, quel quiz, ai miei compagni di viaggio o di barca prima di partire per le ferie, per non guastarmele. Ma con l’amore che c’entra? Tanto, un suo eventuale responso negativo varrebbe, per chi s’innamora, quanto il parere contrario della propria famiglia o degli amici. Zero. Se uno è davvero cotto, se ne frega. Ha “gli occhi foderati di prosciutto” come si dice. Però, che bello averli, finché dura!
E come ti fa crescere il dover scegliere da solo! Se ti neghi all’amore per dar retta agli altri, ti rimarrà sempre il dubbio d’aver perso l’occasione della vita. Se invece ti butti e poi va male, almeno ti resterà la gioia d’aver assaporato, anche solo per poco, un sentimento che molti non assaporano nell’arco della loro intera esistenza. La merda che ogni esperienza fallita lascia in cuore serve come letame per far germogliare meglio la successiva. E comunque, se era amore o merda, lo capisci solo dopo.
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