Archivi del mese: luglio 2008

Presa per il culatello

 

Riporto qui di seguito il “Buonanotte” citato nei commenti al post di ieri. Mattia ricorda una vacca, ma era una scrofa. E non per questioni di maggior mansuetudine o minori dimensioni dei suini rispetto ai bovini: semplicemente il garzone indiano aveva a tiro quelli, e bon. Circa gli amplessi con gli ovini lascio la parola a Manfredi nel BN, e su quelli con gli equini ricordo la scena del film “Padre padrone” in cui il pastorello protagonista sale su un trespolo per far sesso con una mula (Trieste non c’entra). Ecco il pezzo:

 

Denunciato a Castelleone (Cremona) un indiano trentenne sorpreso a far sesso con una scrofa, dopo averla legata al recinto. Pare che non fosse la prima volta. Il proprietario delle scrofe s’era addirittura appostato, perché voleva capire cosa le rendesse da un anno così inquiete, di notte. Il servizio del Tg-Com, nel riportare la vicenda, ha usato termini come “fattaccio, abuso sessuale” e l’ha trattata con toni molto scandalizzati, ma in fondo cos’ha fatto quel povero garzone di stalla? L’amore con troie quadrupedi, non avendo i soldi per le bipedi. Avesse derubato il padrone e fosse fuggito, del suo reato non si sarebbe occupato neanche il giornaletto locale. Invece ha fatto sesso, e per di più maltrattando un animale, così è finito nei Tg nazionali. La solita sessuofobia di matrice cattolica, tipicamente italiana, esige che in questi casi tutti si dicano indignati. Nel caso specifico anche indispettiti, per non poter dare del porco al reo senza implicitamente assolverlo.   

Ben altri e ben peggiori sono i maltrattamenti inflitti dall’uomo agli animali. Bovini e suini presi al lazo, sbattuti a terra, legati e marchiati a fuoco. Ovini idem, per la tosatura. Polli chiusi in microgabbie poco più grandi di una scatola da scarpe, con la luce sempre accesa perché crescano più in fretta. Oche immobilizzate e ingozzate a forza con un imbuto perché il loro fegato si ammali e degeneri in foie gras. Circa il sesso, ditemi: per una scrofa, una mucca o una cavalla è peggio venir legata per ricevere nella vagina un pene umano, o per ricevere l’intero avambraccio del veterinario armato di siringa per la fecondazione artificiale? E che mi dite degli stalloni famosi come Varenne, costretti a montare un manichino spruzzato d’ormoni femminili per depositarvi dentro il loro prezioso seme? Anche il metodo classico è crudele: per non rischiare un flop del campione, si fa ‘scaldare’ la femmina dal cosiddetto “cavallo ruffiano”, un povero stallone che fa petting, si struscia, la bacia, la eccita, e quando finalmente si alza sulle zampe posteriori per montarla gli danno una frustata sui coglioni e lo trascinano via, mentre il campione termina la monta. Altro che l’indiano! 

Nino Manfredi, che da ragazzo fece occasionalmente il pastore in Ciociaria, non nascondeva d’aver fatto sesso con le pecore. Una volta, ad una giornalista che glie ne chiedeva conferma (pensando d’imbarazzarlo) il grande attore rispose: “Deve sapere, signorina, che quella è una pratica diffusissima fra i pastori, specie in passato. Ai miei tempi le ragazze non la davano, il paese più vicino distava dall’ovile mezza giornata di cammino, e comunque i soldi per le puttane non li avevamo. E poi, mi creda: nel far sesso la pecora ha almeno tre vantaggi sulla donna. Primo, non vuole essere pagata. Secondo, non si lagna se sei rapido. Terzo, quando hai finito non ti dice:”E adesso cosa penserai di me?” 

 

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Le due mogli assenti

Ho ricevuto via e-mail una delle tante ‘catene’ con messaggi edificanti che vorrebbero insegnarci a vivere meglio. Peccato che per la maggior parte non siano messaggi problematici, ma si limitino a denunciare con esempi ben costruiti e parole suggestive (spesso accompagnate da foto bellissime, per accrescere l’emozione) normali principi di amore, amicizia, tolleranza e buonsenso, impossibili da non condividere. Peccato anche (o soprattutto…) che alla fine di tali messaggi il lanciatore della catena sfrutti l’emozione provocata ad arte, e chieda al lettore di inoltrare la mail, per far opera buona. Lo scopo, ormai è noto, è quello di carpire indirizzi e-mail da rivendere agli spammers. Ma qualcuno ci casca sempre, e così la quantità di posta indesiderata aumenta. Comunque, ecco il messaggio di stavolta:

Era una mattinata movimentata, quando un elegante ottantenne arrivò in pronto soccorso per farsi togliere i punti da una ferita al pollice. Disse che aveva molta fretta perché aveva un impegno alle 9 in punto. Lo feci accomodare, sapendo che sarebbe passata oltre un’ora prima che qualcuno potesse occuparsi di lui. Poi, vedendolo guardare continuamente l’orologio, decisi di medicarlo io, dal momento che non ero impegnato. La ferita sembrava guarita: mentre gli rimuovevo la sutura gli chiesi se per caso avesse un altro appuntamento medico, dato che guardava l’ora con impazienza. Mi rispose che doveva andare alla casa di cura dov’era ricoverata sua moglie per far colazione con lei, come ogni mattina. Gli domandai che malattia avesse: Alzheimer. Gli chiesi allora se si sarebbe preoccupata del ritardo, ma lui mi disse che già da cinque anni lei non lo riconosceva più. Ne fui sorpreso. «E va ancora ogni giorno a trovarla – feci – anche se sua moglie non sa neanche con chi sta parlando?»

L’uomo sorrise: «…è vero, mia moglie non sa chi sono, ma io so ancora perfettamente chi è lei ». Mi venne la pelle d’oca. Trattenni a stento le lacrime: quello, proprio quello – pensavo – era il genere d’amore che avrei voluto provare nella mia vita. Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è solo l’accettazione completa della persona amata, di tutto ciò che in lei è stato, è, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente quelle che hanno il meglio di tutto, ma quelle che traggono il meglio da ciò che hanno. Perché la vita non è una questione di come riuscire a sopravvivere alla tempesta, ma di come riuscire a danzare nella pioggia. Sii piú gentile del necessario con le persone che incontri: ognuna di esse sta combattendo qualche sorta di battaglia.

Siete commossi? Avete anche voi la pelle d’oca e gli occhi umidi? Eppure, riflettete: il vecchio va dalla moglie perché l’ama. Vedendola, sta meglio, quindi soddisfa un suo bisogno, senza poterle dare nulla, date le sue condizioni mentali. Rischia anzi che lei, non riconoscendolo, abbia una crisi di paura, una di quelle reazioni di diffidenza rabbiosa tipiche degli ammalati di Alzheimer. Rischia, pur di guardarsela da vicino, di metterla a disagio, di lasciarla agitata per tutto il giorno. Nonostante ciò, ci va lo stesso, e davanti a lei si fa la sua bella sega mentale, gratifica il suo amore, cura la sua autostima con un impacco di buonismo, ripensa ai bei tempi andati e trae da ciò che ha (la moglie demente) “il meglio” (la semplice presenza fisica). Poi se ne va contento. Nè che avete già un po’ meno di pelle d’oca? E’ questo che intendevo dire prima, quando parlavo di “messaggi mai problematici”. Vi ho solo messo un paio di pulci nell’orecchio, e voi siete già lì a rimuginare. Provate allora a leggere il messaggio che segue. E’ solo la copia del precedente con una ‘piccola’ modifica che non ne altera il senso, ma aiuta a capire (con la forza del paradosso) le mie perplessità.

Era una mattinata movimentata, quando un elegante quarantenne arrivò in pronto soccorso per farsi togliere i punti da una ferita al pollice. Disse che aveva molta fretta perché aveva un impegno alle 21 in punto. Lo feci accomodare, sapendo che sarebbe passata oltre un’ora prima che qualcuno potesse occuparsi di lui. Poi, vedendolo guardare continuamente l’orologio, decisi di medicarlo io, dal momento che non ero impegnato. La ferita sembrava guarita: mentre gli rimuovevo la sutura gli chiesi se per caso avesse un altro appuntamento medico, dato che guardava l’ora con impazienza. Mi rispose che doveva andare a casa da sua moglie per far l’amore con lei. Gli chiesi allora perché proprio alle nove, e lui mi spiegò che la donna era in coma profondo da cinque anni per un’emorragia cerebrale: bisognava che lui arrivasse da lei prima dell’infermiera di notte, altrimenti addio sesso. Ne fui sorpreso. «Come può far l’amore con sua moglie che, essendo in coma, non può vederla né sentirla?» 

L’uomo sorrise: «…è vero, ma io la vedo e la sento perfettamente, e sapesse che corpo fantastico ha ancora!». Mi venne la nausea. Trattenni a stento il vomito: che genere d’amore era mai quello? Poi pensai alle parole conclusive del messaggio sull’Alzheimer: “il vero amore è solo l’accettazione completa della persona amata, di tutto ciò che in lei è stato, è, sarà e non sarà”. Quindi anche di quel che la persona amata NON è. La moglie del quarantenne, per esempio, NON è vigile. Però è bella, è soda, e soprattutto non accampa mai il mal di testa diplomatico. “Le persone più felici non sono necessariamente quelle che hanno il meglio di tutto, ma quelle che traggono il meglio da ciò che hanno. Perché la vita non è una questione di come riuscire a sopravvivere alla tempesta, ma di come riuscire a danzare nella pioggia”. Giusto. La tempesta del quarantenne è stata il coma di sua moglie, ma lui riesce benissimo a danzare nella pioggia. Ostia se danza, su e giù sopra la moglie, prima che arrivi l’infermiera…

Adesso provate a scrivermi qualche commento. Di pulci ne avete le orecchie piene.

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Ci vuole spirito

Gotto di frèisa in mano, parlavo a casa d’amici del “pericolo islamico”. Il mio interlocutore era un vecchio immigrato pugliese (laureato) che aveva saggiato sulla sua pelle l’astio piemontardo degli anni ’50 contro i “napuli”, quello dei cartelli “Affittasi, non a meridionali”. Ricostruivo, fra ‘na fëtta ‘d salàm ‘d la reusa e l’aotra, le quattro grandi ondate migratorie subìte daTorino da due secoli in qua. La prima fu quella dei “pacu”, i paesanotti, che fra il 1830 e il 1860 quasi raddoppiò la popolazione della capitale dell’allora Regno di Sardegna. Erano tutti piemontesi, contadini e montanari, spinti dalla fame e disposti a fare i lavori più umili. Calare a Torino fu per loro ancora un privilegio, rispetto a quelli che emigrarono in Francia e nelle due Americhe. La seconda ondata, nel primo ‘900, fu quella dei veneti. Era già un’immigrazione operaia, che trovò facile collocamento nelle nascenti industrie metalmeccaniche e tessili (Fiat, Lancia, Snia Viscosa…). Poi venne il secondo dopoguerra, e fu la volta della terza ondata, quella dei “terroni”. Baffi neri e coppola, scendevano spaesati a Porta Nuova dai “treni del sole”, con la valigia di cartone in una mano, e la chiamata di Valletta nell’altra. In trent’anni ne vennero così tanti che superarono, come numero, la popolazione preesistente. Però anch’essi, chi più chi meno celermente, s’integrarono.

La quarta, ultima e peggiore ondata ha investito la città (e la nazione intera) verso la fine del secondo millennio. E’ l’invasione massiccia degli extracomunitari (africani, balcanici, asiatici, rom…), quelli che nessuno vuole e nessuno ha chiamato qui, e che creano enormi problemi di convivenza perché non hanno alcuna intenzione d’integrarsi. “Specialmente gli islamici preoccupano – dicevo, passando al cotechino – per via del loro fanatismo religioso”. La risposta dell’ex-tèradapipe addottorato mi ha lasciato di sale: “basterebbe ribattere colpo su colpo, come fa Israele. Ad ogni attentato, spianare un loro paese”. Non so cosa intendesse per spianare. Se abbattere le case con le ruspe dopo averne evacuato gli abitanti (come in effetti faceva Sharon), oppure bombardarle a tappeto uccidendo migliaia d’innocenti (come a volte fanno gli americani in Iraq e in Afghanistan).

Non ho voluto approfondire, e mi sono alzato da tavola con la scusa di fumare. Non ero indignato (riconosco a chiunque piena libertà d’opinione e d’espressione), ma ero convinto che quel tipo di reazione non avrebbe funzionato, soprattutto per il casino che ci avrebbero costruito su le sinistre in tutto il mondo. Però, sinceramente, non avrei saputo cosa proporre in alternativa alla soluzione “forte”. Perché, se la strategia del ‘pugno di ferro’ non ha finora risolto il problema dell’aggressività islamica, la pratica cristiana del porgere l’altra guancia lo ha addirittura aggravato, ringalluzzendo i mullah.

Passando al culatello, pensavo fra me e me che se alla battaglia di Lepanto, lo scontro navale che vide soccombere i maomettani di fronte alla flotta cristiana (della quale – lo sottolineo con un pizzico d’orgoglio – faceva parte anche la marina sabauda), se a Lepanto – cogitavo – i cannoni dei nostri velieri fossero stati caricati a fiori anziché a granate, altro che culatello, altro che frèisa, stasera! E mentre meditavo su un’ipotetica terza via tra Fallacinghiate e arcobaleccate, mi sono versato una grappa. L’ho fatto istintivamente. Certe cose vanno prese con spirito, e quello ai maomettani manca proprio, in entrambi i sensi.

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Su pei monti che noi saremo

Gli alpini italiani sono stati mandati in Afghanistan nel 2003 da Berlusconi, e finché c’è stato lui al governo l’Ulivo non ha mai cessato di strepitare sulla “inammissibile e incostituzionale partecipazione dell’Italia ad una guerra vera e propria”. Poi però, dopo le elezioni-truffa del 2006 vinte da Prodi, è calato il silenzio sulle penne nere impegnate in Asia, perché ogni accenno a nostri soldati all’estero diventava imbarazzante da quando nel novembre 2006 D’Alema ne aveva spediti un bel po’ in Libano, per proteggere gli Hezbollah da Israele.

Adesso che il governo Prodi si è ‘spento prematuramente’ e Uòlter ha preso la sua bella batosta elettorale, il Cav. ha mandato a Kabul Ignazio La Russa, uno che parla franco. Ecco le sue dichiarazioni da laggiù: «Gli alpini qui combattono duramente da più di un anno, ma Prodi lo ha tenuto nascosto. Lo dico senza fargliene colpa, perché per evitare altri problemi con la sua maggioranza di governo anche io avrei fatto così». D’ora in poi però l’Italia indurirà la sua missione, con nuove regole d’ingaggio e soprattutto con nuovi mezzi, terrestri ed aerei. «E’ importante averli, per spostarsi e proteggersi meglio in una guerra che adesso avrà qualche segreto in meno e qualche rischio in più. Perché non siamo venuti qui - ha concluso il roco ministro della difesa -solo per distribuire caramelle».

Ma davvero? A sentire i compagni nel 2003, pareva di sì. I compagni avevano sentito gli alpini cantare: “su pei monti che noi saremo, coglieremo le stelle alpine, per portarle alle bambine, farle piangere e sospirar” e non avevano più avuto dubbi su cosa andassero a fare in Afghanistan. Chissà che belle stelle alpine troveranno, pensavano. Anzi, stelle hindukushane, perché là non ci sono Alpi. Neppure strade. Laggiù i compagni come strada di riferimento hanno solo Gino, quello di Emergency, il pacifista a senso unico che se vede sparare dalla parte sbagliata gli viene la pelle arcobaleno per l’itterizia.

Guerra? Non sia mai! Tuonava la sinistra. Gli alpini sono stati mandati solo per una missione di pace, di “peace keeping”, puntualizzava Furio Colombo, che sa bene l’inglese. Fassino era perplesso, vedendo le penne nere partire armate fino aidenti, ma Rutelli lo aveva rassicurato: “Piero, i monti afghani sono pieni di selvaggina, vuoi mica che gli alpini, dopo aver raccolto fiorellini tutto il giorno, si neghino il piacere di una lepre allo spiedo, o magari un camoscio, che ci sfami tutto il plotone? Ci sono i taliban che sparano, d’accordo, ma è proprio quello il senso della missione di pace. I nostri devono interporsi fra quei poveri martiri islamici e quei bastardi sanguinari di americani, che li vogliono massacrare”.

Nanni Moretti, allora, era insorto: “ecco, lo sapevo, i taliban sono poveri, ma incazzosi, sta’ a vedere che ti scambiano i nostri alpini per yankees e li attaccano col gas solo per rubargli le penne nere”. L’allora Ministro della Difesa Martino aveva minimizzato: “niente paura, se mai dovesse succedere gli Usa ci darebbero l’antidoto”. Ma a Roma l’opposizione ulivista era insorta: “Antidoto? Non vale! Peace-keeping vuol dire quello, e nient’altro. Chi è pacifista deve sapersi accollare i suoi rischi, come facciamo noi qui, seduti a Montecitorio. Gli alpini, al massimo, potranno rispondere al gas talebano mettendo dei fiori nei loro cannoni (che fa tanto hippy e piacerà a Veltroni), e se moriranno, tanto meglio. Saranno tutti cadaveri buoni da usare in campagna elettorale contro il Berlusca, nel 2006, se i nostri compari della Procura di Milano non saranno riusciti a farlo dimettere prima”.

Questo dicevano e pensavano i compagni, cinque anni fa. Poi è arrivato D’Alema a rovinare tutto col suo Libano, e Prodi è stato costretto a nascondere che in Afghanistan gli alpini sparavano. Per vostra fortuna, compagni, adesso c’è La Russa, uno che a sfotterlo non ti querela come Di Pietro. Fiorello infatti ha già iniziato a prenderlo per il culo a “Viva Radio Due” e voi potete ricominciare a strillargli contro i vostri slogan pacifisti. Sempre che, fra i cori e gli insulti del cong-rissa rifondarolo, gli urràh per i conti segreti del Pd all’estero e il tifo per quella raffinata figura di statista che è il vostro alleato Checiazzecca, vi resti un po’ di voce.

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Piobesgeti

Ero in giro per fiori lungo i bordi delle provinciali, dietro Stupinigi. Le troie negre strapoppute e strachiappute che lungo quelle strade vendono a buon mercato ratti amplessi da consumare in auto nei viottoli vicini, se ne stavano accucciate sulle loro sedie pieghevoli con l’ombrello aperto per pararsi il sole, e da là mi rivolgevano osceni inviti. Equivocando il mio procedere lento, pensavano che fossi indeciso, che volessi ‘vedere la mercanzia’. Ed eccole allora alzarsi, estrarre i seni dalla canottiera, frullar la lingua tra i labbroni carnosi, carezzarsi le cosce, battersi il culo, mimar pompini, gridarmi “andiamo?” (una addirittura “anduma”) coi loro denti gialli aperti in sorrisi speranzosi. Sempre allegre, le nigeriane. Non come le loro colleghe dell’est, quelle strafighe che battono a Italia ’61 eleganti, silenziose, e a volte non ti guardano neanche, sembra aspettino il bus. Niente richiami o show mimati, solo rapide trattative al finestrino con chi accosta. Le negre, invece, sembrano fruttivendole al mercato (forza ragazzi, le mele a un euro, sentite che profumo, le mele a un euro, guardate che meraviglia!), amano esibire la merce, destare l’attenzione, indurre voglie.

Mai andato con donne a pagamento, in vita mia. E se adesso da vecchio sono certo che la prospettiva di un amplesso fugace e scomodo sull’auto mai riuscirebbe a inturgidire il mio guerriero, non l’ho fatto neanche da giovane, neanche da ragazzo (ed eran epoche di fame sessuale, quelle, coi bordelli già aboliti e le ragazze ben restìe a mollarla), quando al guerriero non occorrevano stimoli visivi per mettersi sull’attenti, e combatteva senza far storie in ogni luogo e situazione: gallerie di cinema, spinose camporelle, sedili di utilitarie, dure scrivanie, freddi muretti… anche all’in piedi. Non era per scrupolo morale che evitavo le scàje, ma per orgoglio. Se me la davano gratis, ci andavo (in goliardia è capitato), ma pagarle no, perché quel gesto mi avrebbe assimilato a qualunque altro maschio (anche scemo, laido o bavoso) disposto a sborsare la stessa cifra.

Queste idee ruminavo, guidando piano. Poi ho visto un campo di grano appena falciato, con quelle balle di paglia cilindriche evacuate dai mietitrebbia, che sembrano pastiglie Leone al tamarindo per giganti. Non molti anni fa (circa cento, e al sud anche meno) in campi come questo si precipitavano i più poveri a spigolare, cioè a raccogliere i chicchi di frumento caduti ai mietitori. Erano donne anziane, bimbi e bimbe, gente non più (o non ancora) adatta alla fatica brutale dei campi, che così contribuiva al magro bilancio familiare frugando i solchi da mattina a sera per portare a casa un sacchetto di grano raccolto chicco a chicco.

Anche nel campo innanzi a me v’erano cuori intenti a spigolare, ma non umani. Erano piccioni. Centinaia di famelici pennuti ammassati a beccare quella manna di chicchi abbandonati. Piccolo segno di un’abbondanza che un domani (spero lontano) potrebbe finire. Certo, vi sono sprechi più offensivi nell’oggi, come il cibo buttato via sotto scadenza dai supermercati, o i pasti avanzati nelle mense, o gli scarti sontuosi delle macellerie… ma quei piccioni spigolatori mi riportavano indietro, a tempi in cui c’era ancora un rispetto religioso per il cibo.

Ho visto anche una scena da piccolo Serengeti padano. Come nei documentari sui parchi africani si vedono le gazzelle pascolare in (apparente) tranquillità e il gattopardo acquattarsi con (apparente) indifferenza vicino ad esse, pronto a balzare sulle più distratte, anche lì c’era un felino, ma senza pardo: solo gatto. Stava fermo in agguato, aspettando che qualche piccione distratto, di chicco in chicco, gli venisse a tiro. Poi zac! Scatto, rincorsa e balzo. Lo stormo frullava via come il fumo di un’esplosione, faceva alcuni giri nell’aria finché la fame vinceva la paura e i piccioni riatterravano, solo un poco più in là, mentre il gatto ricominciava l’avvicinamento, strisciando cauto fra le stoppie. Sole dardeggiante, facce negre, sterpaglie, nuvole d’uccelli, felini in agguato… ecco il mio piccolo safari casereccio nell’oasi faunistica del Piobesgeti.

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La grama lavandera a treuva mai 'na bon-a péra

Storie di povertà che lasciano perplessi. Come quella della famiglia Nigro di Muggiano, nel milanese, che vive in un vecchio furgone prestato, dopo essere stata per sei mesi sotto un ponte. Il padre, imbianchino, ha 51 anni, la madre infermiera 50, il figlio maggiore “che si arrangia” 30, quello mediano falegname 26 e l’ultimogenita studentessa 16. E’ stata lei che ha telefonato ai giornali, così si è compiuta la magìa mediatica e la sera stessa i cinque erano già in hotel, a spese del Comune, in attesa che venisse loro assegnato d’urgenza l’alloggio in casa popolare.

A dire il vero una casa ce l’avevano (ricevuta in eredità), fino al 1998, ma poi l’hanno persa nel fallimento dell’agenzia immobiliare che glie l’aveva permutata con un alloggio. Da quel momento in casa Nigro pare che siano successe solo disgrazie: i maschi che non trovano più lavoro, la mamma licenziata, lo sfratto dalla casa d’affitto, la vita randagia. Il padre grida addirittura che si vergogna d’essere italiano. Certo, in un caso come il suo l’Italia non ci fa una gran figura, ma la situazione è maturata nel ricco nord, nella capitale finanziaria della nazione: siamo proprio sicuri che Milano, la generosa Milano “cont ël coeur in man” si meriti quest’accusa infamante?

Allora, facciamo un po’ di pulci al caso mediatico etichettato “Le miserie del sciur Nigro – Notizia da indignazione di pronta beva – Annata 2008”. Cominciamo dal lavoro. Pazienza il padre, ma i due ragazzi perché non sono andati a cercarselo in Veneto, dove le ditte offrono anche la casa pur di trovare operai, e non riescono lo stesso a trovarne? Poi c’è la madre, che è infermiera. E’ già strano che la Regione l’abbia licenziata: in Italia per essere licenziato da un posto pubblico devi averla fatta grossa, ma proprio grossa. E poi le infermiere non siamo costretti ad importarle dall’est, perché non ce n’è abbastanza? Possibile che un’infermiera professionale con 27 anni di esperienza, e per giunta italiana, non trovi lavoro? Màh…

Infine, la casa. Il Nord è pieno di cascine vuote i cui padroni son disposti a lasciarle abitare gratis da gente onesta purché le protegga dalle razzie di zingari ed extracomunitari che battono le campagne. Magari non hanno la fermata dell’autobus proprio dietro l’angolo, ma sono sempre meglio dell’arcata di un ponte, no? C’è qualcosa che non mi quadra, in questa storia. Anche la pennellata anticlericale aggiunta dai Nigro, quella faccenda del parroco che avrebbe rifiutato di dare asilo a loro preferendo darlo agli africani, sembra inventata apposta per aizzare i leghisti. Bisognerebbe intervistarlo, questo prete, e magari ci direbbe cose interessanti sul perché i negri sì e i Nigro no. La sfiga avrà pure avuto un debole per questa famiglia, ma la loro non sembra una storia di intraprendenza, di volontà caparbia, un tirarsi su le maniche alla lombarda. Anzi. A ben vedere, neppure il cognome sembra tanto lombardo…

 

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Polvere di stelle

L’altro giorno si parlava di sicurezza sul lavoro, settore di cui fanno parte anche le malattie professionali. E’ curioso che il Pm Guariniello, così attento a silicosi, mesoteliomi e varie bue da rusco, non abbia fatto una piega nel 2002 di fronte all’infartaccio del povero Raspelli, il critico enogastronomico della busiarda. Raspelli sì che è un lampante, incontestabile martire del lavoro. Perché, se in genere fare il critico significa preferire l’indolenza dell’opinione allo sforzo dell’azione, questo non vale per il settore gastronomico. Lì devi assaggiare tutto, non puoi limitarti a leggere il risvolto di copertina o l’indice, come fanno molti illustri recensori di libri.

Raspelli non si è mai tirato indietro, e a botte di sedici portate per pranzo ha finito per pagare il suo zelo professionale con un infartone dal quale non si è mai ripreso del tutto. Tanto che ha lasciato i ristoranti e si è dato ad altre cose. In Tv si è messo a scopiazzare Lubrano, cioè a condurre un programma di denuncia delle piccole truffe e degli imbrogli commerciali. Sulla Stampa si è messo ad addentare non i cibi, ma gli altri critici, gli autori delle guide più diffuse. E qui naturalmente, a parte le inevitabili polemiche su chi merita i riconoscimenti e chi no (discorsi inutili, visto che l’argomento è quanto mai opinabile), i difetti scoperti nelle guide e denunciati dal nostro indefesso cacciatore di tappini nei frigobar degli alberghi sono i soliti. Profili dei locali inesatti o scopiazzati, indirizzi errati, chiusure o spostamenti non segnalati. Peccato che tutto ciò succedesse anche alla “sua” Guida dell’Espresso. Quando la dirigeva lui, cioè, prima di esserne esonerato. Amen, allora.

Tanto, alla quasi totalità della popolazione non è concesso frequentare normalmente i posti “stellati”: per mangiare lì una famiglia di cinque persone deve posare il mensile d’un impiegato. E poi l’alta ristorazione si spinge sempre più verso l’arte, la creatività pura, lo sperimentalismo, per stupire l’occhio e la papilla, ed è per conseguenza sempre più lontana dal gusto popolare e dalle ricette classiche. Oggi, ad esempio, va di moda la cucina “fusion”, come accade in musica: con la globalizzazione la gente viaggia e assaggia, viaggia e ascolta, e così cucine e musiche etniche tendono a mescolarsi.

Se serve a favorire l’integrazione, ben venga allora la cucina fusion. Il guaio è che a fronte di questi stimolanti fenomeni, nelle nostre case purtroppo dilagano i sofficini, i sughi pronti, i precotti da microonde e i “quattro salti in padella”. Mentre si arricchisce la cucina d’élite, s’impoverisce quella familiare. Complici anche certi assurdi regolamenti comunitari (vietato fare il formaggio nel mastello di legno, obbligatorio lavare la trippa con gli acidi, vietato stagionare il lardo sottopietra…) si sta diseducando il palato dei giovani, che vanno avanti sempre più a cocacole, merendine, BigMac e altre simili troiate. Fra pochi decenni i nostri figli non sapranno più distinguere una lepre da un coniglio. I ricchi, in cambio, andranno da Scabin, il Ferran Adrià italiano, nel suo costosissimo ristorante ‘Combal due’ al Castello di Rivoli, a scoprire nuovi sapori e riscoprire quelli antichi, e si stupiranno come si stupivano i nostri nonni quando, abituati ai film in bianco e nero, vedevano le prime pellicole a colori.

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Ci vuol tattoo, coi giovani

Con grande sorpresa di mia moglie, uno dei compagni di classe di Titti (figlio d’avvocato) dopo aver preso un’ottima maturità scientifica con 76/100 è subito partito per Londra, dove farà i tipici mestieri da studente fuorisede (servire nei pub, fare le pulizie, ecc…) per mantenersi agli studi. Innanzitutto dell’inglese, ma questo era scontato. E’ la seconda materia che stupisce: frequenterà un costoso corso di tattoo. Tatuaggi. Imparerà a farli nel più importante centro inglese del settore, dove si recano i divi di tutto il mondo.

Sarà difficile far digerire questa passione ai suoi vecchi. Il tatuaggio è ancora malvisto dagli italiani over ’50, perché è una scelta irreversibile e perché ha ancora una valenza ‘canaille’, evocando marinai, camionisti, ergastolani, bikers, skinheads, punk… Ma bisognerà che si convincano, gli anziani perbenisti, che molti giovani si conciano così perché, non ricevendo regole estetiche ed etiche dagli adulti, se le devono dare da loro. Per quello spesso finiscono col cercare i propri limiti sulla via degli eccessi.

Certi adolescenti, vedendo i genitori idolatrare il corpo e rifiutare l’invecchiamento con l’aiuto della moda, del fitness e della chirurgia estetica, si auto-aggrediscono con tatuaggi e piercing per distinguersi edipicamente da loro. Fanno del loro fisico una specie di frontiera carnea da superare per poter approdare a una nuova identità transetnica e transgenerazionale, e questo spiega l’aspetto androgino di molti di loro (abbigliamento unisex, uomini senza barba né peli, donne senza trucco e coi capelli a spazzola). Spiega anche il loro agire isolati (pur sentendosi “branco” come tutti a quell’età, in ogni epoca), il loro immergersi per ore nei videogames, nella realtà virtuale e nella cybernautica. Dove scoprono davvero un altro mondo.

Oggi il giovane comunica via sms da un continente all’altro della terra come da un banco all’altro dell’aula. In amore chatta, corteggia, fila e fa persino sesso “on line” masturbandosi davanti alla webcam. Il rovescio della medaglia è che tutto ciò lo rende più vulnerabile nella vita pratica, più imbranato nei contatti reali; lo ‘sballo’ chimico gli serve più da salvagente che da trasgressione. I più audaci esponenti di questa “trash generation” si spingono addirittura a sfidare la morte in performances estreme. Senza avere la cultura che in altre epoche permetteva di vivere la trasgressione adolescenziale come passaggio iniziatico e catartico, essi si abbandonano inconsapevolmente ad un nichilismo autopunitivo che è solo un surrogato della auto-riappropriazione hippy

I figli dei fiori cercavano, attraverso l’esplorazione del proprio corpo in tutte le sue potenzialità sensoriali, di approdare alla conoscenza dell’Io. I figli dei reality show, meno colti, si fermano al corpo; e spesso (purtroppo) se lo rovinano per sempre. Per fortuna questi mutamenti avvengono molto, molto gradualmente, e possono servire da campanelli d’allarme per noi adulti. Gli eccessi delle avanguardie devono servirci per capire quel che potrebbe succedere al grosso dell’armata giovanile. Per cercare di rimediare ai nostri errori (che sono molti) e soprattutto per smetterla di colpevolizzare i giovani come se fossero extraterrestri: in fondo, il loro comportamento è dovuto per metà al dna (che è il nostro) e per l’altra metà all’ambiente che (sempre noi, e spesso male) abbiamo predisposto intorno a loro.

 

 

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Opera ipsa est periculum

 

Nessuno è bravo come gli italiani a fare il virtuoso a parole. Dote innata o tratto caratteristico distillato nei secoli dalla necessità di mentire ai tiranni? Mah… Difficile dirlo, vedendo l’ipocrisia buonista del “politically correct” trionfare in paesi di antica tradizione democratica come l’Inghilterra o gli Usa. Di certo, un buon contributo alla nostra eccellenza dissimulatoria l’ha dato la chiesa cattolica, con l’inquisizione prima e con il bigottismo intransigente poi, ma non perdiamoci in quesiti sulle origini di questo nostro neo. C’è, e basta. A maggior ragione adesso che la realtà si è fatta mediatica (basta annunciare una riforma in Tv perché la gente la dia per fatta), c’era da aspettarsi tutto quel can can mediatico sulle ‘morti bianche’ che ci viene somministrato ad ogni incidente sul lavoro con più di due vittime.

Nessuno che parafrasi Terenzio? Il grande commediografo latino scrisse circa i mali senili “senectus ipsa est morbus” la vecchiaia stessa è una malattia. E allora, ragionando sui pericoli del lavoro, si potrebbe dire “opera ipsa est periculum”, l’attività stessa è un pericolo. Nel senso che la prudenza è buona consigliera non solo nel lavoro, ma in tutte le fasi della vita  attiva. Persino di quella passiva come il sonno, perché non dormire abbastanza accresce la pericolosità della veglia. Se occorre stare attenti a quel che si fa da quando si mette il piede fuor di letto a quando ci si tira la coperta sul naso, perché non si dovrebbe essere vigili e prudenti (a maggior ragione) sul lavoro?

Tutto è pericoloso nella vita, fin dal mattino. Come ci si lava, come ci si veste, quello che si mangia, e in molti casi anche quello che si dice… La pretesa dei governi di tutelarci come bambini ritardati è una delle cose più indisponenti della moderna organizzazione sociale. Mangiate questo e quello, fate moto, se fa caldo bevete, se fa freddo copritevi, mettetevi il casco sulle due ruote e sugli sci, allacciatevi le cinture, non fate il bagno se c’è il mare mosso, portatevi dietro questo e quello (dal triangolo in auto ai razzi segnalatori in barca)… Se fossero solo raccomandazioni, pazienza. Ma nel momento in cui diventano leggi, e prevedono sanzioni salatissime per gli imprudenti che le violano, mi stanno francamente sulle palle.

Qui in Italia abbiamo, anche grazie all’Europa dei burosauri (che non avendo altra funzione politica se non quella di partorire regolamenti astrusi e fissare le dimensioni dei cetrioli, ci stressa di continuo con queste idiozie), il regolamento più severo sulla sicurezza del lavoro che esista in occidente, la legge 626. Tralascio le sue incongruenze e il suo costo per le imprese. Mi chiedo solo se vogliamo contemplare una buona volta anche la sua violazione da parte degli stessi lavoratori. Si è distratto. Non si era legato. Non aveva il casco. Si è addormentato al volante…

Non voglio arrivare sempre al “se l’è cercata”. Voglio solo che si prenda in considerazione quest’eventualità, senza pretendere di prevenire l’incidente sempre e in ogni caso, di anticipare le negligenze più improbabili, di scongiurare una pericolosità che, ripeto, è insita nell’attività quotidiana di chiunque, che lavori o no. Perché aggiungendo costi notevoli al lavoro con le loro cervellotiche norme antiinfortunistiche, i legislatori invogliano sempre di più gli imprenditori strozzati da margini irrisori a violarle. Se il gioco vale la candela, la gente gioca. E sull’altro versante, se il lavoro viene presentato come un’attività “ope legis” scevra da rischi, si incoraggia la negligenza, la sicumera di chi lavora credendosi al riparo da ogni rischio. Ultima domandina: quella di Unterkircher, l’alpinista professionista morto nel crepaccio sull’Himalaya, è da considerarsi morte bianca? 

 

 

 

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Le magne

Ho sempre avuto grande amore e rispetto per i vecchi, forse perché l’infanzia mia felice ne fu piena. Mi son goduto tre nonni su quattro, diversissimi fra loro. Nonna Nora, la mia nonna materna, amava i fiori e gli animali, suonava il pianoforte e aveva un coraggio da leonessa: durante la guerra ebbe la villa occupata dai tedeschi, che amavano ascoltarla suonare Beethoven in veranda senza sapere che quella romantica pianista teneva le armi dei partigiani nascoste nelle gabbie dei conigli. Suo marito, nonno Manlio, lo chiamavamo il condor. Parlava poco, leggeva continuamente libri, aveva un grande carisma e possedeva una quantità esorbitante di scarpe, cravatte e vestiti di lusso. La nonna paterna, invece, era modesta. Era stata maestra elementare e il suo nome era Matilde, ma tutti la chiamavano Tilde. Quando nacqui io era già cieca. Con noi nipoti fu sempre dolcissima: ci prendeva sulle ginocchia e ci raccontava lunghe favole, oppure ci parlava di suo marito Federico, musicista e pittore. Così facendo, ci permise di conoscere a fondo anche il nonno  mancato prima che noi nascessimo

Ma quella che m’è rimasta più nel cuore è sua sorella Rosalia Migliardi, “magna Lia”, morta nel 1976 a 101 anni. Era stata un grande soprano (insegnò canto fino a 80 anni, annoverando fra le sue allieve anche Magda Olivero), ma in casa era la “magna”. Una volta la “tota” che non aveva trovato marito aveva due scelte: o invecchiava nella casa paterna prendendosi cura dei genitori, o si accasava presso una sorella o un fratello sposati, dove assumeva il ruolo di “magna”: un misto fra governante, factotum, nurse, baby sitter, dispensiera, rammendatrice… Magna Lia, ad esempio, curava anche le tombe di tutta la nostra vasta parentela: quanti pomeriggi ho passato a trottarle dietro per i viali del cimitero! Aveva 71 anni più di me, eppure camminava lesta come un bersagliere (suo padre, il Maggiore Enrico Migliardi, lo era stato, aveva combattuto in tutte le guerre d’indipendenza ed era entrato in Roma nel 1870 dalla breccia di Porta Pia), e quando tornavamo dal camposanto ero più stanco io di lei.

Dico a voi tutto questo un po’ perché è dolce dondolarsi nei ricordi, e un po’ perché m’indigna (e purtroppo capita sempre più spesso) leggere di vecchi imbrogliati, derubati o malmenati. Chi lo fa è doppiamente vigliacco, perché i vecchi sono le zolle in cui siamo piantati, sono lo scrigno della memoria, ma sono anche deboli e indifesi come dei bambini. Un tempo vivevano sull’uscio, aperti e disponibili, ma ora si barricano in casa spaventati, e si son fatti chiusi e diffidenti. La società moderna, arida ed efficientista, non ha più tempo per loro. Quando non li manda all’ospizio, li parcheggia, pigri e incupiti dalla depressione, davanti alla Tv (altro punto in comune tra vecchi e bambini al giorno d’oggi). Per fortuna il welfare (pensione, assistenza medica, servizi sociali dedicati agli anziani…) allevia loro l’umiliazione di dipendere totalmente dai famigliari o dalla carità altrui, ma viene da chiedersi come fosse la vecchiaia di una volta, quando non c’era welfare, né radio né Tv.

Era sicuramente piena di stenti e privazioni, come la vita di quasi tutti, ma era davvero quel pozzo di noia e malcelata pena? Quanto echeggia nei miei ricordi dice no. Forse sono ottimista, ma una volta gli anziani vivevano in mezzo ai giovani, facevano le veglie nelle stalle, dicevano i vespri ed i rosari, facevano due chiacchiere sull’uscio, si aiutavano nei piccoli lavori… Avevano anche lunghi silenzi, ma l’assenza dei media li riempiva d’immagini e ricordi. E poi erano molto richiesti per consiglio, e ciò gli dava importanza: in un mondo semianalfabeta dove le conoscenze utili si trasmettevano quasi solo oralmente, di generazione in generazione, gli anziani erano enciclopedie ambulanti (spesso le sole disponibili), testimoni dell’esperienza, depositari di rimedi, formule, ricette, proverbi, canti, manualità complicate, trucchi e segreti dei mestieri. Grata di ciò, la società patriarcale li teneva in grande considerazione. A volte mi chiedo se per un vecchio fosse migliore questo modello di tramonto, oppure il moderno mix di mutua, pensione, pillole e Tv.

 

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