Archivi del mese: novembre 2008

Niente avvocati per i polli

Manca meno d’un mese a Natale, e i negozi cominciano ad animarsi dei primi acquirenti, quelli che ‘meglio pensarci prima’, quelli che ‘così trovo ancora la più ampia scelta’, quelli insomma che anche alla stazione ci vanno un’ora prima e prenotano le vacanze un anno per l’altro. Io che sono il re del last minute, e provo angoscia solo ad accettare un invito a cena per il mese dopo, osservo e medito: “varietas, vitae salis”. Ma non mi sfugge il fatto che anno dopo anno le confezioni da regalo si fanno più luccicanti e preziose, con nastri, fiocchi, palle e biglietti.

D’altra parte, se quella natalizia è l’orgia del pacco-regalo per antonomasia, ormai la confezione viene curata tutto l’anno, perché l’imballo è un importante veicolo di comunicazione, è un dettaglio che fa vendere. La scienza che la studia si chiama packaging, ed è un ramo del marketing. Gli americani ci hanno plagiato con ‘sto “ing”. Facevamo ginnastica, e adesso spinning. Andavamo in gita, ed ora facciamo trekking. Pomiciavamo infoiati, e oggi facciamo petting. Tornando al pacco (nel senso di confezione: dopo aver parlato di petting è meglio precisare…), ci accorgiamo che questa tendenza a privilegiare il fuori sul dentro ci ha cambiati.

La chiamano “dell’apparenza”, quest’epoca in cui ciò che sembri conta più di ciò che sei, ma non mi pare che una volta fosse tanto diverso. C’erano famiglie che facevano acrobazie incredibili per far credere agli altri di appartenere ad un livello sociale superiore. C’era addirittura chi saltava il pasto, ma si macchiava apposta di sugo la camicia, o teneva da parte un po’ di briciole da scuotere alla finestra insieme alla tovaglia, per dare a intendere ai vicini d’aver mangiato. Oltretutto la gente di un tempo, non bombardata di notizie come quella di oggi, era maledettamente curiosa dei fatti altrui. Anche diffidente, e furbissima. Vi racconto un aneddoto che lo dimostra in maniera divertente.

Mia nonna sfollò a Rubiana durante la guerra 15-18, con mio zio di quattro anni e mia madre di due. Mio nonno le mandava il soldo dal fronte, ma la sua paga da ufficiale degli alpini era magra, e la fame era tanta. Una volta nonna Nora, vedendo una gallina entrare in cucina dall’uscio aperto sull’aia, la ritenne colpevole di violazione di domicilio e la processò sull’istante. Senza avvocati, mentalmente e per direttissima. Il povero pennuto, manco a dirlo, fu condannato alla pena capitale, e la sua esecuzione fu immediata. Finì in pentola, e le sue piume furono sotterrate insieme alle ossa. Mamma e zio (che non avevano mai assaggiato un pollo) chiesero a nonna come si chiamasse quel nuovo cibo e lei, furba, rispose “cossòt” (zucchini), altra cosa che i bimbi non conoscevano.

Così, quando il vicino di cascina, proprietario della gallina (il quale aveva sentito profumo di brodo, ma non poteva provare il reato) avvicinò i bimbetti in assenza della mamma e facendo finta di niente chiese loro a bruciapelo «cosa l’éve mangià ancheuj, bei cìt?» i due innocenti risposero tranquillamente «cossòt». Per quella volta mia nonna se la cavò grazie alla sua astuzia, ma mi chiedo ancora oggi dove avrà sepolto le ossa e le piume. Con l’aria di fame che tirava, gli occhi dei curiosi sempre aperti e i cani che giravano per l’aia, avrà dovuto scarpinare un bel po’ su per i boschi e seppellire i resti del condannato ben lontano, e coprirne la tomba con pietre e foglie secche. Non ebbe avvocati, quel pollo, ma in cambio ebbe un più che dignitoso funerale.

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Una mattinata coi fiocchi

E’ arrivata la neve, finalmente. Con grande sollievo degli imprenditori che a suo tempo hanno “unto” gli ingranaggi giusti per averne lo sgombero in appalto. Con grande contentezza dei bambini, ma anche dei vecchi e dei contadini che serbano un cuore da bambini, aperto ed umile. Aperto alla gioia e alla paura, pronto a inzupparsi d’emozioni nuove come una spugna, e umile perché sa che tanto sono gli altri a decidere tutto. I vecchi, quando han perso vigore, autonomia e potere, han bisogno d’essere aiutati e rassicurati come i bimbi. Ma in cambio l’esperienza apre loro vasti orizzonti di ricordi, soppesando i quali la mente gli si spalanca alla comprensione come il cuore infantile all’emozione.

I contadini, poi, con la natura ci lottano tutto l’anno. Tutta la vita. Lo sanno, loro, che dal cielo arriva vita e morte, due tappe dello stesso ciclo, come le semine e i raccolti. La neve è manto prezioso, per i semi che hanno posto fra le zolle, e loro la accolgono con gioia. Il resto sono soltanto ubbìe di cittadini, problemi d’auto e di catene, fatica di spalare, poltiglia o ghiaccio nelle strade, scivoloni. Ma anche apertura degli impianti sciistici in montagna, e albergatori che si fregano le mani. Fino agli anni ’50 si sciava persino sulla collina di Torino, al Monte dei Cappuccini o al “praiàs”, sopra il Pilonetto. Si saliva a lisca di pesce un quarto d’ora, per una discesina d’un minuto, ma era bello. Su e giù, su è giù… per ore.

Forse erano altre nevicate, quelle. Roba seria, da paralizzare la città, come quella di 80 centimetri del gennaio ’87, che fece addirittura dimettere un assessore. Sissignori, può sembrare strano, ma c’è stato un tempo in cui i politici si dimettevano, quando le mansioni loro affidate non funzionavano. Adesso invece sono più scafati, frequentano i salotti giusti, e se gli capita sul collo un avviso di garanzia, l’ufficio stampa della Procura gli fa subito un comunicato “ad personam”: era un atto dovuto. Un sindaco che non si è dimesso neppure quando una camionata di geometri comunali è finita in galera, figurati se molla il cadreghino per due fiocchi in più.

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Tutti onesti, a parole

Pare che il mercato europeo (e meno male che non ci siamo dentro solo noi, se no direbbero “i soliti italiani…”) sia zeppo di Euro falsi, molto ben contraffatti e difficili da riconoscere. Anche le monete (quelle da 2 euro valgono pur sempre 4mila lire, eppure nessuno si sogna di controllarle) vengono falsificate alla grande. Questa notizia è una buona occasione per farci un esame di coscienza. Quando ci capita di ricevere banconote false la tentazione di riciclarle è fortissima, vero? Perché sentiamo di aver subìto un torto, e non ci importa, pur di ripararlo, di far lo stesso torto a qualcun altro: mors tua, vita mea.

Certo, ci sono in vendita dei marchingegni elettronici per scovare i falsi, ma costano cari, sono ingombranti da portar dietro e infine, per sofisticati che siano, danno spesso per buoni biglietti contraffatti che non sfuggono invece al cassiere di banca, che oltre ai marchingegni ha il tatto allenato e l’esperienza. Il guaio è che quando te li individua lui è troppo tardi: te li sequestra e li taglia sull’istante. E’ obbligato a farlo per legge. Ecco perché i negozianti di Porta Palazzo si sono organizzati col “falsario di fiducia”. E’ uno “del giro”, ha il polpastrello supersensibile, sa quali sono i particolari delle banconote più difficili da falsificare, conosce le “partite”, e cucca anche i falsi più perfetti.

Il mercante, dopo che il “consulente” gli ha individuato eventuali banconote false, gli paga una piccola percentuale, e poi le rifila come resto ai distratti. Ci rimette un po’, ma è sempre meglio che farsele tagliare in banca. Purtroppo così facendo i falsi rimangono in circolazione. Nella grande distribuzione si limitano a rifiutare le banconote dubbie, senza tagliarle, ma lì il danno viene calcolato in percentuale e ricaricato sui prezzi, come quello derivante dai furti. Sapete perché nei supermarket la frutta e la verdura costano più che fuori, e il resto no? In parte è perché servendosi da soli i clienti acciaccano la merce, prendono il meglio e lasciano nelle cassette, alla fine,  fondi invendibili, per cui il 20/25% del prodotto va perduto. Ma in parte è perché molti pesano il sacchetto, ci incollano il ticket e poi ci infilano dentro ancora un po’ di roba. Se non esagerano, il rischio che la cassiera li scopra è quasi nullo.

Siamo tutti pronti ad indignarci contro borsaioli, ladri e falsari, ma molti di noi non si fanno scrupoli nel comprare cellulari, biciclette e autoradio “della luna” (cioè di provenienza furtiva) al Balon, o nel filarsela dopo aver rigato un’auto sconosciuta nel parcheggio, o nel prendere l’autobus a scrocco, o nel riciclare, appunto, il dieci euro falso preso in chissà quale resto da “quei fetenti di negozianti”. C’era un tale con la barba che circa 2000 anni fa parlava di travi, pagliuzze e prime pietre da scagliare. Meditare sulle sue parole è utile: sono sempre attuali.

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Onlus non lucet in tenebris

Ormai i questuanti “per conto terzi” ci assediano tutto l’anno. Per strada, in chiesa, in casa, per posta, su Internet, alla radio, alla Tv… tutti ci chiedono qualcosa per qualcuno. Telethon, derby del cuore, spettacoli “benefici”, vendite domenicali di fiori e frutta nelle piazze di tutta Italia per la lotta contro la tale o talaltra malattia, adozioni a distanza, e chi più ne ha più ne metta. Sotto Natale, poi, quando si suppone che i nostri cuori siano più inteneriti e i nostri portafogli più pieni, è un crescendo rossiniano. Il che sarebbe anche lodevole e pio, se potessimo controllare a fondo i conti di chi ci chiede soldi per salvare dall’estinzione il delfino del fiume giallo o dall’inedia i bambini del Darfur. Invece non possiamo. Se ci sono istituzioni poco trasparenti, anzi, del tutto opache, sono le Onlus e gli enti benefici in genere.

Oggi siamo spiati ovunque e di continuo. Grazie al cellulare c’è chi sa sempre dove siamo e con chi parliamo, e lo registra su tabulato. La rete d’ascolto Echelon sa anche cosa diciamo. Telepass rivela dove viaggiamo. Siamo controllati anche nell’uso delle carte di credito e negli spostamenti telematici di valori. Uno dice: pazienza, tanto io non ho nulla da nascondere, ma così almeno si catturano i malviventi e si possono seguire i proventi delle mafie e le tangenti internazionali…

Macché. L’orecchio del Grande Fratello telematico cattura solo i pesci piccoli. Per gli altri, oltre ai famosi “paradisi fiscali”, c’ è la Svizzera. La civile Svizzera, che ti multa se butti la cicca in terra, è da sempre cassaforte segreta di tiranni, capimafia e politici corrotti. Il suo sistema bancario è impenetrabile. Anche quello notarile, a giudicare da come furono trattati a suo tempo i membri della commissione parlamentare Telecom-Serbia saliti a Lugano per verificare le rivelazioni di Igor Marini. E questo fa già incazzare. Ma la segretezza è difesa in Italia anche a livello spicciolo, nella contabilità degli enti pubblici, delle fondazioni, delle Onlus, e questo fa incazzare ancor di più.

Capisco tutelare la privacy di chi muove denaro e merci a scopo di lucro (se i concorrenti sanno da chi compri, a chi vendi, e a quanto… addio!), ma non di chi dice farlo senza scopo di lucro. Costui dovrebbe essere assolutamente limpido, e disposto a dimostrarlo a chiunque, in ogni momento. Invece certe cooperative che usano i volontari (ma si fanno pagare ben cari i servizi) non mostrano i libri neppure ai soci. Lo stesso vale per certe associazioni benefiche che chiedono soldi solo per esistere, cioè per pagare stipendi, uffici e auto blu a chi le dirige. Un’esempio clamoroso? Nonostante la legge che lo impone, la maggioranza degli enti pubblici non ha ancora comunicato i nomi di chi ha svolto per essi le famose e costose consulenze.

Nei bilanci pubblici quella spesa imbarazzante (tramite la quale, da tangentopoli in poi, sono state legalizzate le bustarelle) è riunita come somma in uscita, sotto la voce generica “consulenze”. Idem per le “spese di rappresentanza”. Impossibile saperne di più. Il cittadino, spiato, seguito 24 ore su 24, dovrebbe almeno poter spulciare questi conti come fa con quelli del suo condominio. E dovrebbe anche poter controllare a fondo i conti delle associazioni “benefiche”, che in virtù di questa loro qualifica non si limitano a chiedere soldi a lui, ma li chiedono (e ne ricevono parecchi) anche agli enti pubblici. Invece non gli è possibile.

Mi viene in mente il modo pittoresco con cui mia nonna ci faceva tacere, da gagni: “Tì, parla mach quand che le galin-e a pisso” (tu, parla solo quando le galline pisciano, cioè mai, quindi stai zitto). Ecco. Noi cittadini potremo controllare a fondo e in ogni momento i dettagli dei bilanci degli enti pubblici e delle Onlus quando le galline pisceranno. Questa è una delle ragioni per cui non sono contrario all’ingegneria genetica. Gli scienziati hanno già clonato pecore e maiali: quanto tempo ci vorrà ancora perché facciano pisciare una gallina?

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Elemosina in limousine

Mi sembra ieri che fiorivano i comitati e nascevano le collette per i bimbi del Kossovo, e adesso non se ne parla più. E’ esplosa la ricchezza, laggiù, o le collette seguono l’onda emotiva suscitata dai media? Buona la seconda. A giudicare dagli ultimi arrivati (bimbe slave portate dal padre a prostituirsi, piccoli rumeni costretti a suon di botte a mendicare nei tram con la fisarmonica, bambini rom scatenati nei furti e nei borseggi) i balcanici non se la passano molto bene. Eppure si fanno collette per i bimbi iracheni e afghani: ovunque si sposti la guerra degli Usa, là i bambini diventano degni di attenzione. Non altrove.

C’è qualcosa di equivoco, in tutto ciò, ma ad essere ancora più equivoco è, almeno qui in occidente, l’accattonaggio in sé. I robusti e sanissimi zingari che da qualche anno presidiano i semafori sono l’ultima sfrontatezza del settore. Hanno imparato in fretta le frasi-chiave: “in nome de Dio” per toccare il cuore dei credenti e “solo per mangia” per impietosire con la fame. Eppure qui a Torino, tra Cottolengo, Sermig, Caritas e altri enti, vengono distribuiti oltre 3000 pasti gratuiti al giorno. E in più si possono avere gratis vestiti, cure mediche, aiuto nella ricerca di lavoro, eccetera.

La verità è che l’accattonaggio rende. Più del furto, più del borseggio, più del lavoro, e non è nemmeno più reato, in Italia. Dei falsi zoppi che si trascinano col piede rovesciato e le stampelle uno l’ho visto io, a fine turno, claudicare teatralmente fino a un isolato di distanza e poi, girato l’angolo, drizzarsi e camminare spedito fino all’auto. Era una Mercedes. I giornalisti che si sono travestiti da mendicanti per vedere quanto rende quell’attività, lo confermano: secondo il posto e l’abilità (cioè la capacità di impietosire), rende dai 100 ai 300 euro al giorno. Una paga da dirigente industriale o bancario.

A questo punto mi si rivalutano i cinesi, che magari sfruttano nel lavoro nero i connazionali appena arrivati (hanno anche loro una mafia che anticipa le spese d’immigrazione e poi li schiavizza finché hanno ripagato tutto), ma non li vedi mai questuare, rubare, far prepotenze. E ora che ci penso, anche gli africani li vedi magari spacciare (i maschi) o prostituirsi (le donne), ma non chiedere l’elemosina. Molto più spesso li vedi lavorare onestamente, loro. Gli zingari, mai. Ma se lo dici, passi per razzista. Persino a chiamarli zingari vieni perseguitato dai talebani del “politically correct” che brulicano nelle sinistre: bisogna usare il termine ‘nomadi’. Anche se nomadi i Rom non lo sono più, perché ormai si sono trapiantati qui nel paese di bengodi, e nessuno li schioderà mai, come i Sinti nei secoli passati. Altro che figli del vento! Sono figli del “vengo”.

 

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Caffé scorretti

Ricordo che quando Marzia Marchi (una barista di Treviso che aumentava il caffè a due euro, ma solo agli “indesiderati”, cioè ai tossici e agli spacciatori che bazzicavano il vicino parco) la stampa di sinistra scatenò furiose polemiche sul nordest razzista, sui negozianti ingordi, eccetera… Analizzando i fatti (espressione quanto mai calzante, trattandosi di tossici), la siora Marzia se li trovava nel bar perché nel parco di fronte c’era una florida attività di spaccio gestita dai nordafricani. Spacciatori e clienti venivano a rifocillarsi da lei, e il bar perdeva la clientela normale, timorosa di furti, scippi e possibili contagi da HIV su tazze e bicchieri.

Un po’ come succede a San Salvario, o a Porta Palazzo, i quartieri mussulmani di Torino, dove gli esercenti sono costretti ad una guerra privata quotidiana, faticosa e ahimé perdente contro la malavita, lo spaccio, le prepotenze e il degrado. Chi può, vende l’attività o l’abitazione e si trasferisce altrove, a costo di rimetterci, e questo ha fatto crollare il valore degli esercizi e degli immobili anche per chi non può andarsene. Le forze dell’ordine? Fanno quel che possono (di recente sono arrivati a rinforzo persino i militari!) ma i risultati delle retate durano pochi giorni, o poche ore. In cambio, durante i blitz, gli esercizi non incassano un centesimo, perché i clienti vedono le luci blu, i capannelli minacciosi, la confusione, e scappano altrove per paura di rogne.

Nonostante ciò vi è sempre qualche parlamentare, giornalista, religioso che in nome della “political correctness” si scaglia contro gli espedienti (come le ronde autogestite) inventati dagli assediati per tirare avanti. A Treviso erano scesi in campo i radicali, in nome della Costituzione che garantisce pari diritti ai cittadini, compreso quello al caffè. Peccato che la Costituzione preveda anche l’obbligatorietà dell’azione penale, e l’uomo qualunque si chiedeva come potesse la forza pubblica aver multato la barista ignorando il reato di spaccio (ben più grave) che si svolgeva sotto i loro occhi ogni giorno ed ogni notte, a pochi metri dal bar. Dissero al tempo che Marzia discriminava i nordafricani, ma era falso. Lei discriminava solo gli spacciatori e i drogati, tant’è che il caffé più caro lo pagavano anche gli italianissimi e bianchissimi tossicodipendenti di Treviso. Dissero allora che la legge consente agli esercenti di non servire e allontanare chi reca disturbo o crea pericolo (circostanze nel suo caso documentabili), ma non permette di allontanarli come faceva lei, usando la maggiorazione del prezzo come metodo dissuasivo.

Ricordo però anche che negli anni ’70 un barista dell’Autogrill di Bologna-Cantagallo rifiutò il caffè all’onorevole Almirante e a sua moglie donna Assunta, dicendo: «qui non serviamo i fascisti». L’allora segretario del Msi, che non disturbava nessuno e non creava alcun pericolo, si limitò ad andarsene senza neppure protestare, da quel gran signore che era. Ma nessun giornale, partito o singolo compagno si mobilitò in favore dei suoi diritti. Anzi, non risulta neppure che quel barista politicamente scorrettissimo (il Msi era un partito legalmente autorizzato e presente in Parlamento con centinaia di rappresentanti liberamente eletti) sia stato non dico licenziato, ma neppure multato. Dopo i fatti di Treviso, però, ho capito: la sinistra si sarebbe sicuramente mobilitata, compatta e forte, ma solo se il barista avesse fatto pagare ad Almirante il caffé al prezzo doppio.

 

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Le illusioni della giustificazione

C’è una cosa particolare, nella tecnica d’impaginazione dei giornali, che si chiama “giustificazione”. Vi spiego rapidamente cos’è: poiché in genere il testo sui giornali è diviso in colonne, senza giustificazione il loro margine destro risulterebbe frastagliato. Invece è dritto come il sinistro, e ciò si ottiene aumentando (o diminuendo) impercettibilmente gli spazi fra una parola e l’altra. Una volta lo facevano a mano i tipografi, aggiungendo spessori “a occhio”, oggi lo fa automaticamente il computer. In ogni caso questi spazi bianchi, casualmente ma sempre diversi, possono venirsi a trovare in corrispondenza (anch’essa casuale) di altri spazi bianchi della riga sotto, i quali a loro volta confinano magari con spazi bianchi sottostanti, e così via… formando delle specie di “strade”, o ramificazioni, o stalattiti bianche, che si possono vedere solo ignorando il nero e sforzandosi di guardare solo il bianco.

Provate a farlo socchiudendo gli occhi o guardando la colonna da lontano. Le vedete? Bene. Io paragono queste casuali vie bianche nelle colonne dei giornali alle connessioni causa-effetto nei fatti della storia. Se guardiamo solo gli avvenimenti nudi e crudi, esse non appaiono. Se invece ci sforziamo di osservare la storia dall’alto, nel suo insieme (come abbiamo fatto con la colonna stampata) le connessioni emergono, diventano (o ci paiono) evidenti.

Il guaio è che poi, come succede nella pareidolia, il fenomeno ottico-dissociativo che fa vedere figure precise nella casualità (degli spazi tipografici, delle venature del marmo, della disposizione delle stelle…) a ognuno appare una spiegazione diversa, o anche nulla. C’è chi vede il lago di Como nella colonna del giornale, una Madonna nel marmo del gradino, un’orsa nelle stelle, e c’è chi nelle stesse cose vede solo righe stampate, semplice travertino, normali stelle. Per quello è raro condividere le spiegazioni storiche.

Nella caduta dell’impero romano, per esempio, c’è chi vede come causa il calo del senso civico, chi il decadimento della morale, chi la corruzione pubblica, chi l’impigrimento generale, e chi tutte queste cose insieme. Ma c’è anche chi vede semplicemente l’arrivo di popolazioni barbare decise, affamate ed evolute nell’arte militare. Per questo è bello discuterne, e per questo (specie sulle spiegazioni della storia più recente) non ci si trova mai d’accordo.

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Apocalypse show

A Guido Ceronetti pruderà di certo la penna. Troppo ghiotta, la notizia, per un catastrofista incallito come lui: il mondo finirà il prossimo 15 maggio. Mentre Aldo Busi strilla «oddìo, c’è l’apocalisse e non ho niente da mettermi!», internet è in subbuglio per l’arrivo del “pianeta X”. Nessuno l’ha mai visto, neanche i telescopi spaziali della Nasa, ma per quello c’è la spiegazione, la parola magica: “cover-up”. E’ in atto una congiura del silenzio per non spaventare i terrestri, i governi di Usa e Russia, che hanno accesso al telescopio spaziale, sanno tutto da tempo, ma preferiscono tacere per non scatenare il panico in anticipo, tanto non c’è niente da fare.

Oh, basta, là! Già i Sumeri – a diso j’aso –  credevano al “pianeta in più”, e lo avevano battezzato Nibiru, cioè “pianeta della distruzione”. Una distruzione che avverrà non per il suo impatto con la Terra, ma per l’interferenza del suo campo magnetico col nostro. Viliàch d’un Nibiru, gnanca ‘l coragi ‘d colpì franch… a fa come coi ëd San Damian, ch’a tiro la péra e a nascondo la man… La Terra smetterà di ruotare (chi resterà dalla parte illuminata vedrà il sole fermo in cielo) e si scateneranno eruzioni, terremoti, tsunami, frane, alluvioni, uragani, tormente, e chi più ne ha più ne metta. Ma a basta nen. La polarità di “X” darà una bella shakerata ai continenti, facendo finire l’Antartide all’equatore, staccando il Canada dal resto dell’America, sommergendo Indonesia e Caraibi, sbattendo il Brasile al polo nord e l’India al polo sud. Un vero casino. L’Europa slitterà nell’emisfero sud, ma in zona temperata, e molto più a sinistra. Dato che il pianeta killer non ha ancora ufficialmente un nome, Veltroni voleva dapprima battezzarlo “Silvio” per via delle distruzioni, ma da quando ha saputo che porterà l’Europa verso sinistra lo chiama “Walter”. 

Ma varda mach che stòria! Poi uno naviga un po’ in rete ad informarsi, e scopre che “X” è già passato almeno 200.000 volte accanto alla Terra senza spostare nulla. Come mai? Si era distratto, o aspettava Veltroni? Il fatto è che noi adoriamo le dietrologie, le teorie dei “grandi vecchi”, dei complotti internazionali, delle congiure del silenzio miranti a nasconderci chissà quali verità… Non ci piacciono le “versioni ufficiali”. Un po’ perché chi le gestisce ce ne dà motivo fin dall’antichità, un po’ perché abbiamo paura di passare per fessi (chi è sospettoso e diffidente sembra sempre più astuto di chi si fida senza controllare). 

Non viviamo bene, però. Quel dover sospettare a priori, quel dover stare sempre sul chi va là è stressante, come la gelosia.  Avremmo tanta voglia di lasciarci andare, di aver fiducia, di credere senza far domande, come succede a chi ama davvero e a chi ha la fede. Perché se no facciamo come Bertoldo, che dovendo salire al volo sull’asino prese troppa rincorsa e finì dall’altra parte dell’animale. A furia di non voler credere, per partito preso, alle versioni ufficiali, finiamo poi per credere, per partito perso, alle balle più assurde. Come al pianeta X o all’onestà del calcio post-Moggiopoli.

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A s' fà an préssa a dì bonsens

Il buonsenso è come l’amore: tutti sanno che esiste, tutti sanno cos’è, ma appena scavi a fondo scopri che ognuno ne ha la sua idea personale. Il bello è che, non essendoci modello, archetipo o brevetto, tutti hanno ragione. La legge cita espressamente nei suoi codici il “buonsenso del padre di famiglia”. Riflettiamoci. Intanto, indicandone un tipo, dà per scontato che ce ne siano diversi, ed è come se ci invitasse a chiarire cosa vogliamo intendere NOI per buonsenso. Perché parlarne sembra facile, ma è complicato. Attribuirlo al “padre di famiglia” è già un’evidente (anche se comoda, e spesso necessaria) semplificazione. Il buonsenso non appartiene mai ad un’intera categoria, o fascia d’età, ma solo a certi individui all’interno di esse. Quindi chi vuol farsi capire con chiarezza cita il ‘paterfamilias’, ma solo come riferimento storico. Perché in quella figura, almeno una volta, era più facile trovarlo.

Oggi che il genitore di stampo patriarcale si è quasi estinto, e sta per sparire anche la sua versione light (quella ante ’68), il giovane papà è in piena crisi di ruolo, pizzicato fra problemi di carriera, piatti da lavare e pannolini da cambiare. Altro che paterfamilias, altro che scrigno di buonsenso! Il maschio, all’interno della coppia occidentale moderna, è già tanto se non va fuori di melone, perché è quasi sempre nevrotizzato da una partner ipercompetitiva e messo in ansia da un diritto di famiglia che sa sbilanciato in favore di lei. E non solo: è spesso contestato anche dai figli, quindi costretto a negoziare ogni dettaglio della vita comune.

Secondo le regole comportamentali più moderne, per giunta, voler cercare il buonsenso solo nei padri è “politically uncorrect” verso le madri, le donne in generale, i single, i gay. A questo punto vien da chiedersi se non sia meglio frugare nell’atto di nascita, invece che nello stato civile. Andare, cioè, per fasce d’età. Chi lo fa (e sono molti), di solito scarta i giovani, in quanto li giudica fatui, instabili, facili prede delle passioni, e sceglie gli anziani. Però questi ultimi non saranno magari accecati dalle passioni, ma lo sono spesso dai pregiudizi, dalle suggestioni, dalle superstizioni e da altri retaggi pseudoculturali. Senza contare le loro frequenti  patologie mentali (depressioni, sindromi maniacali, nevrosi, paranoie, aterosclerosi, forme varie di demenza senile…).

Se i giovani non offrono garanzie di buonsenso per certi versi (immaturità, complessi, pressioni ormonali, eccessi di emotività) gli anziani non le offrono per certi altri. Lasciamo l’anagrafe, allora, e proviamo a cercarlo nelle professioni. Prendiamo i giudici, ad esempio. Loro dovrebbero averne molto, di buonsenso, e usarlo sempre. Invece non è così, purtroppo. Sono uomini anch’essi (giovani, maturi, anziani…) con tutti i difetti di quelle età. Ma dunque, se neppure i giudici ce l’hanno con certezza, dov’è il buonsenso, dove càspita si trova quest’araba fenice? 

E’ semplice, e chiaro allo stesso tempo. Sta in noi. Ognuno di noi, ammettetelo, pensa: “Io so bene che cos’è il buonsenso, e ne possiedo in abbondanza. Magari non lo uso proprio sempre, perché rende la vita un po’ noiosa. Però so che, se voglio…”

 

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Le vie dròle

Un post leggero leggero, oggi, per celebrare la fine della tortura del gesso al braccio. Finalmente oggi me l’hanno tolto. Il polso è gonfio e mi fa un male porco, ma il dottore dice che è normale, e che deve riabituarsi. Speruma. Dunque: leggo sul web che Paul e Lisa Allott, di Conisbrough (Nord Inghilterra) hanno cambiato casa perché imbarazzati dal nome della strada in cui abitavano: “Butt Hole Road”, che significa “Via buco del culo”. Erano stufi dei buontemponi che si fotografavano a chiappe nude sotto la targa della via. Qui però mi scappa un sorriso. Ricordo che al Pian della Mussa, quando arrivava una comitiva di genovesi, le cartoline andavano a ruba (“mussa” in dialetto ligure equivale a “ciòrnia” in piemontese…). In Corsica, sopra Bonifacio, han dovuto sostituire il cartello del paesino di “Figa” (dove torme d’italiani ghignanti sostavano ogni giorno per una foto ricordo) col meno esplicito “Bungalows de Figa”.

E’ che le vie, prima che prevalesse l’uso d’intitolarle a uomini o luoghi, venivano spesso indicate per le loro caratteristiche (vico torto, piazza grande….), o per la direzione in cui portavano (corso della stazione, via del duomo…). Anche qui a torino Via Garibaldi si chiamava una volta “Dòira gròssa” perché nel mezzo ci correva una bealera proveniente dalla Dora, un gorgogliante ruscello che fungeva anche da fogna a cielo aperto. Oppure nel nome delle vie s’indicavano i mestieri in esse maggiormente esercitati (Via dei Mercanti, Piazza delle Erbe…) o le caratteristiche peculiari degli abitanti (Strada del Nobile…) Ecco: magari in quella via inglese dei coniugi Alliott anticamente abitava un gay.  A volte nell’intitolare le vie si citavano persino situazioni estemporanee. A Firenze, per dire, c’è ancora oggi “Via delle serve smarrite” così detta perché anticamente, durante la libera uscita, molte fantesche in quella via arrotondavano la loro misera paga con fugaci “extra”. A Napoli c’è “Vico scassacocchi”, che è una chiara allusione al suo fondo una volta assai sconnesso.

Nomi che non si scordano. Non come quelli che leggi in certi villaggi residenziali (dicesi villaggio residenziale un gruppo di case e giardini d’aspetto omogeneo, abitato da ricchi. Se abitato da gente modesta, tipo Vallette o Falchera, dicesi invece ghetto), dove le vie sono intitolate a piante e fiori. Così, vagando fra Via dei Gigli, dei Peschi, dei Peri… (costruite tutte insieme, e quindi dannatamente simili) ci si perde sempre. Ma gli Allott sono stati troppo schizzinosi. In fondo il nome della loro via significa anche fortuna. Cosa dovrebbero dire, allora, i comunisti che hanno avuto per anni la direzione nazionale in Via delle Botteghe Oscure, o Alleanza Nazionale che ce l’ha tuttora in Via della Scrofa?

 

 

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