Archivi del mese: giugno 2009

Per una E, Hallmark perse la faccia

“Poi vi spiegherò domani perché sono partito da Hallmark…”. Ecco inventato il trailer del post. Non sobbalzate per i termini inglesi. Potevo scrivere “il messaggio destinato a destare la curiosità dei lettori sul brano successivo e indurli a leggerlo”, ma sarebbe stato troppo lungo. L’inglese è imbattibile, per concisione e brevità, e questa è la ragione per cui sarà la lingua universale del futuro. Ma veniamo a ‘sto famigerato Hallmark Channel.

Tutto nasce da una E che mancava in una scritta importante. Non in un sms, voglio dire, o un’e-mail, o una chat, dove siamo ormai abituati a tollerare gli errori da digitazione affrettata. Mancava dalla testata proprio di Hallmark, il canale “rosa” di SkyTv che ha come slogan “il ritmo del cuore” e vicino al suo logo mette dediche allusive come “per quelle che facevano la doccia solo per lavarsi e non per abbronzarsi” insieme ad aforismi di cui cita regolarmente l’autore. Nel caso nostro, la frase “Donne non si nasce, lo si diventa” era firmata Simone de Beauvoire. Capito? Beauvoire, non Beauvoir.

Qui non si tratta di sviste, refusi, o digitazioni affrettate, ma solo d’ignoranza. Quella citazione i grafici di Hallmark l’avranno cercata fra centinaia di altre, scelta, discussa, approvata, cambiata di posizione e di carattere mille volte prima di sottoporla alla direzione per l’Ok. In tutte queste fasi, nessuno si è accorto della E eccedente? Cazzo! Ma è come se avessero scritto Blaise Pascale, Mark Twaine, Jean Renoire… Qualcuno potrà obbiettare che quella E non è importante nella pronuncia del cognome della grande scrittrice francese, perché è muta. Ma sarebbe un’obiezione da linguisti, e loro non lo sono. Neppure lontanamente. Qualcun altro potrà obiettare che in un lessico “di rete” dove si trova scritto sempre più sovente xkè invece di perchè, nn al posto di non, cmq invece di comunque, sfuma l’indispensabilità della grafica corretta.

Ma io controbatto che quelle sono abbreviazioni giustificate (almeno in prima istanza) dalla fretta e dal costo dei messaggi, come nei telegrammi e negli annunci a pagamento: è li che sono nati gli “esprimovi felicitazioni onnifamigliari” o i “vendesi trilocale biservizi”. Ma nella testata di un canale Tv è diverso. Un canale “vintage”, poi, che nel suo sito web si presenta come raffinato custode dei valori d’un tempo, “dedicato alle donne di oggi con il buongusto di ieri”, un canale che propone “un mondo di emozioni e di valori veri”, non può calpestare il valore “antico” dell’ortografia. Poi però leggo, più in basso, che “Hallmark è prodotto da NBC Universal Global Networks Italia”. Italia… ora capisco.

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Donna non si nasce, si diventa

Ho letto sulla testata di Hallmark (un canale di Sky Tv specializzato in fiction per donne) questa frase di Simone de Beauvoir: “Donne non si nasce, lo si diventa”. Non è una delle frasi più memorabili della scrittrice francese che fu la compagna di Jean Paul Sartre, ma fate bene attenzione: con quel gioco di parole facile e suggestivo ci hanno costruito montagne di aforismi usa-e-getta: “centravanti (goliardi, attori, scalatori…) si nasce, non si diventa…” Il pregio della De Beauvoir è almeno quello di averlo rovesciato. “Donna non si nasce, si diventa” privilegia l’influenza ambientale e culturale e il lungo lavoro di apprendimento (fenotipo) al semplice e non meritorio bagaglio cromosomico (genotipo). Di solito, invece, capita il contrario.

Di solito il “si nasce” suona come una sentenza inappellabile. O nasci “quello”, o non c’è niente da fare, è inutile che studi, lavori, lotti per diventarlo. Non vi ricorda qualcosa? A me sì. Mi ricorda la prepotenza millenaria dei clan dominanti, che trasmettendo agli eredi terre e beni usurpati ai deboli hanno creato le dinastie regnanti, si sono battezzati “nobili” e hanno inventato la gabola del sangue blu. Mi ricorda millenni di soprusi perpetrati con la scusa del lignaggio. Mi ricorda le presunte supremazie razziali e loro slogan (solo apparentemente innocenti) come “il sangue non è acqua”.

Il rapporto tra genotipo e fenotipo nella formazione della personalità è grosso modo del 50%, ma il persistere nel lessico di questo privilegio dato al nascere sul diventare è come una specie di masso erratico. E’ la testimonianza semantica di antiche glaciazioni dei diritti umani. E’ il sinistro retaggio di lunghissime ere (durate fino a ieri…) in cui il messaggio trasmesso al popolo sfruttato, per giustificare il sopruso, era proprio quello: capi (re, nobili, feudatari, latifondisti, signori…) si nasce, non si diventa. Col tacito sottinteso del “non provateci neppure”. Poi vi spiegherò domani perché sono partito da Hallmark.

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Il lato positivo di Gomorra

Bisognerebbe che nelle scuole facessero leggere “Gomorra” invece dei classici. Tanto, ormai, dall’ignoranza post-sessantottesca non ci salviamo più, basta scorrere Facebook per rendersene conto. Tanto vale che i giovani sappiano. Quello di Saviano non è un romanzo, come crede chi non l’ha letto (e pensa di colmare la lacuna vedendo il film), ma una lunga e dettagliata inchiesta che fa capire come funziona in Italia il rapporto fra economia reale e sommersa, mostrando nei dettagli come è strutturata e con quale raffinata logica imprenditoriale agisce la moderna criminalità organizzata.

Spiega, ad esempio, che i più grandi fatturati (ante-fallimento) della Cirio e della Parmalat venivano fatti nei mercati del sud, monopolizzati dai clan. La domanda è: quanto ci guadagnò la malavita “col colletto bianco” nel crack di quelle due aziende? Nessuno potrà mai rispondere. Se c’è un denominatore comune in tutti questi scandali (da quello della Banca Romana del 1892 ai “casi” Ambrosiano, Banco di Napoli, Irpiniagate, Ferruzzi…) è l’inutilità dei processi, la trasversalità politica dei responsabili e il mancato recupero del malloppo, nonostante si trattasse di cifre colossali.

I maneggi sulla Sme fra Prodi e De Benedetti, o il regalo dell’Alfa ad Agnelli, sembrano punture di zecca davanti ai 26mila miliardi (in lire del 2000) del crack di Tanzi, e ai 60mila miliardi (in lire del 1980) dello scandalo Irpiniagate, ma di quell’oceano di soldi non s’è trovata che qualche goccia (anche perché non sono stati cercati con la stessa ostinazione usata per i fondi neri di Berlusconi…). Da quanto scrive Saviano, il sospetto che i burattinai in giacca e cravatta se li siano spartiti con quelli “in coppola e lupara” (che oggi sono in giacca e cravatta anche loro, e al posto della lupara hanno a disposizione interi arsenali di armi da guerra nell’Europa ex comunista) è forte.

E spiegherebbe anche come mai in Italia, dove l’economia “emersa” è alla canna del gas, la crisi si senta meno che altrove. Come il sistema della corruttela politica e dei grandi scandali finanziari, l’attività dei clan è una vera e propria economia parallela, totalmente esentasse, i cui utili devono però  essere “lavati” nell’economia emersa (è lì la “tassa”) e infine reinvestiti o spesi. Si vede che i tizi che girano con autista e scorta (appartengano essi all’una o all’altra categoria) ne spendono gran parte qui. E dove gira il grano, la crisi morde meno. 

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Il sostituto del cuneo ( e rusé nen)

Fare ‘sto scherzetto del cuneo al PC per bloccargli la data del post mi piace. Fa parte di quel rapporto che si stabilisce fra uomo e macchina, sia essa televisore, computer o automobile, e che vede l’uomo vincente. Le macchine si fanno sempre fregare dall’uomo. Quando certe radio o certe Tv o certi distributori di bibite funzionano solo ricevendo una manata nel punto giusto, mi sembrano dei guaglioni ribelli, che solo dopo lo schiaffo ‘e mammà fanno ‘o compito. In cambio, le macchine si vendicano imponendoci i loro neologismi. E così non si sbanda più, si derapa. Non si supera, si baipassa. Non si pigia, si clicca. Non si scarica, si daunloda. Non si azzera, si resetta.

Dovremo abituarci. Le parole importate e i neologismi che s’affermano sono entità dotate di vita autonoma, ci piaccia o meno, e dopo un po’ di tirocinio acquistano diritto di cittadinanza nel nostro lessico come l’acquistano gli immigrati nella nostra società. Qualcuno sarà più simpatico, qualcun altro meno, ma ormai ci sono, e in fondo servono. I puristi li odiano e li evitano, come fanno i razzisti con gli immigrati, ma è una battaglia persa in partenza. Basterebbe già non abusarne. Comunque l’altro giorno alla radio dicevano che in Usa stanno studiando un programma per “daunlodare” (mediante appositi sensori applicati al cranio) addirittura i pensieri sul Pc.

Esperimento interessantissimo, giacché è proprio l’unicità sequenziale dei nostri impulsi mentali a determinare la nostra irripetibile identità. In teoria dovrebbe derivarne (se mai ci riusciranno) un file disordinato, almeno inizialmente, fatto di frasi, immagini, volti, ricordi, ragionamenti temporalmente e spazialmente strampalati, un po’ come nei sogni, dove magari sei al mare e l’istante dopo sei in classe. Ma questo risultato, già clamoroso, sarebbe in fondo il mero sostituto d’un diario, un promemoria da riordinare e completare ed eventualmente consegnare ai posteri nel nostro struggente desiderio d’immortalità.

Moltissimi di noi l’hanno già fatto, anche senza bisogno del Pc. Quello che sarà impossibile “daunlodare”, invece, sono le emozioni. Anche perché noi stessi non riusciamo sempre a decifrarle, a definirle. Figuriamoci poi a “scaricarle”, cioè comunicarle. Ci riescono pochi artisti (poeti, pittori, musicisti…), ma è difficile stabilire l’esattezza della loro comunicazione, sempre dipendente dalle emozioni nostre, suscitate dalle loro in un misterioso gioco di risonanze speculari ognor diverso. Tra noi umani. Figuratevi col computer. Uno mette i sensori a Ungaretti mentre s’illumina d’immenso, e il Pc trascrive “mi accendo d’illimitato”. A sarà giust, ma a l’è nen l’istess. Për fortun-a


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Neovitacce da cani

A cinque anni dall’entrata in vigore della legge contro il maltrattamento e l’abbandono degli animali, ci sono ancora molti comuni che vietano l’accesso al centro storico a tutti i cani, anche con guinzaglio e museruola. Ci sono ancora molte (troppe) località balneari che vietano le loro spiagge ai cani, e così va a finire come a Capalbio, dove un husky (ma che ci faceva un husky a Capalbio?) è morto perché il padrone, non potendolo portare sulla battigia, lo ha lasciato in auto, ha calcolato male il giro dell’ombra nella giornata, e il sole glie l’ha cotto. Ogni iniziativa che ci sensibilizzi su questi problemi (a scuola, sui media, negli spot, nelle affissioni e sui social networks come Facebook…) va bene, purché l’uomo d’oggi, drogato di consumismo e abituato all’usa-e-getta, capisca che i pets non sono prodotti qualsiasi da buttar via quando non servono più, ma esseri vivente con le loro esigenze da rispettare. Che è una cazzata tenere un cane da slitta di razza artica come l’husky alle nostre latitudini, solo perché “ce l’ha Agnelli”.

Quanto agli abbandoni estivi dei cani, il costo sociale degli incidenti stradali causati da quelle povere bestie è così alto che coi soldi che spendiamo per curare le persone ferite e riparare le vetture coinvolte nei sinistri potremmo tranquillamente finanziare un servizio gratuito di pensione in tutti i canili della penisola. Detto questo, però, va precisata una cosa: è ipocrita indignarsi per gli abbandoni dei cani sotto le ferie quando da anni i governi fanno di tutto per render la vita impossibile ai cani e ai loro padroni. Vietato l’ingresso nei locali, negli hotel, nei campeggi ( e per poco passava anche la legge sul divieto nei treni…), vietato l’abbaio al ciuso e all’aperto (persino nelle ville di collina!), vietati accessi in spiaggia e balneazioni (senza questo divieto, l’husky di Capalbio sarebbe ancora vivo…).

Insomma, tenere un cane è diventato un vero problema, e non solo durante le ferie. Va bene l’obbligo di tatuaggio per identificare i padroni, va bene la loro responsabilizzazione sull’igiene (sacco, paletta…) e sulla sicurezza (guinzaglio, museruola…), con multe certe a chi non li usa, ma poi piantatela, basta con le proibizioni! Non ha senso lottare “contro le barriere architettoniche” (???) per togliere agli handicappati difficoltà e divieti che storicamente hanno sempre avuto, e poi appioppare ai migliori amici degli handicappati (si pensi ai cani per ciechi o alla pet therapy) difficoltà e divieti che storicamente non hanno mai avuto.

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Il tramonto del brus

Se l’Italia del 2050 non sarà terzo mondo, lo dovremo all’equazione arte + natura + cucina = turismo. Purtroppo il quarto sta già calando, perché stiamo facendo di tutto per rovinare le prime tre: è ormai accertato che le scorie industriali velenose venivano sparse nel napoletano (e altrove) come fertilizzanti sulle verdure dalla “banda del compost” controllata dalla Camorra. Buon cancro a tutti, quindi: in questo crepuscolo culinario epocale siamo rimasti senza difese. Iniziative come Slow Food sono solo aspirine contro la peste dei precotti che ci atrofizza il gusto all’insegna della pigrizia (la fretta da lavoro è una scusa…) e l’analfabetismo palatale avanza di pari passo con quello lessicale.

Tra 50 anni saremo come gli yankees, che già oggi non distinguono una pizza cotta a legna da una elettrica. Vogliamo ceronetteggiare (neologismo burlesco che sta per “fare previsioni catastrofiche”) anche sulle lingue? I difensori del piemontese come me sono retroguardia nella retroguardia, visto che lo stesso italiano è destinato ad essere sostituito prima o poi da un inglese imbastardito, uno slang internazionale tutto sigle e apocopi, tipo sms. Che ne sarà, allora, del Moscato d’Asti e del Castelmagno? Non nutro gran fiducia. Li chiamano già ora “prodotti di nicchia”, forse perché la gente nicchia a comprarli, ed ha ragione: 35 euro al chilo sono un furto, per un formaggio, e 15 idem per una bottiglia di vino che non è neanche tale, vista la bassa gradazione.

Se per il primo c’è almeno la scusa della rarità (ma non si lamentino poi delle imitazioni, perché si può produrre dell’ottimo Castelmagno “falso”, venderlo ad un terzo e guadagnarci ancora: la differenza la percepirebbe un compratore su dieci), per il secondo non c’è scusa, neppure quella della barrique. Per il Moscato quel trucco non si usa. L’armata dei barricatori è destinata a diventare una masnada di barricadieri, trincerati dietro vecchie etichette di prestigio a litigarsi una nicchia sempre più nicchiosa e nicchiante. Nel frattempo, in squallidi prismi di cartone, dilagherà il vino spagnolo importato (oggi a 0,40 Euro al litro), e ci andrà già bene se i giovani lo berranno, senza passare per sempre a Coca e birra. Intonate un de profundis per il palato.

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Esercizi obbligatori di corpo libero

Eccola ancora, l’ansia da solstizio estivo che mi allaga piano le cantine dello spirito… ogni anno peggio, come i compleanni, che da ragazzo aspettavo ingolosito, e da anziano mi danno una sempre più netta sensazione di sottile fastidio. Per me, la vera svolta dell’anno è il 21 Giugno: pietra miliare, capoverso, dado celeste implacabile che segna un punto e ti ricorda che devi avanzare di una casella in quel Monopoli al contrario che è la vita. Con quel dado celeste devi proprio avanzare. Lo senti. Coi dadi terrestri, invece, puoi ancora imbrogliare te stesso e gli altri, star fermo un turno, andare in prigione, pescar probabilità e imprevisti, tornare indietro con gioia, magari grazie a un bisturi, una pillola, un amore… 

Avanzare verso il Grande Traguardo fa paura, ed è inutile mascherare l’angoscia per questa svolta del pianeta intorno al sole con fuochi d’artificio, processioni, falò e feste d’antica origine pagana. Il gong del tempo vibra il suo colpo nel silenzio assordante dell’universo. La razione quotidiana di luce fa il suo grande salto all’indietro, librandosi per aria come il ginnasta a fine pista, dopo la serie di flic-flac degli esercizi obbligatori a corpo libero. Poi ripiglia la corsa in direzione opposta, verso il buio invernale, lasciandosi dietro una nuvola impalpabile di talco che pian piano si posa, e imbianca l’angolo, lasciando intravedere la traccia diagonale delle sue esibizioni, avanti e indietro sulla pista dell’esistenza. E poi ancora avanti, ancora indietro, fino al grande finale (doppio salto mortale disteso con avvitamento, il più difficile). E poi l’inchino ai giudici… il saluto ai compagni ed al pubblico… l’attesa del voto. Con la speranza di far meglio in un’altra gara, se ci sarà.

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Partita doppia esistenziale

Quando si parla di eredità non “morali”, ci si riferisce ai beni mobili e immobili che morendo uno lascia, cioè a roba “monetizzabile” ed eventualmente divisibile. Ma molte cose lasciate da un morto possono essere monetizzabili. Una foto, ad esempio, scattata accanto a un Vip morente, o un suo autografo chiesto in extremis. Ricordo il caso del medico che per ultimo curò George Harrison, e fu denunciato dagli eredi dell’ex Beatle per aver “costretto” il chitarrista, poco prima della morte, ad autografare una chitarra per suo figlio. Il sanitario convinse il giudice che non vi era stata coercizione e fu assolto, ma in realtà quella chitarra oggi vale una fortuna. Eredità usurpata?

Difficile rispondere, perché al di là di foto e firme, anche il solo fatto d’aver lavorato per un Vip può essere monetizzato: pensate al memoriale del maggiordomo di Lady D. La conoscenza dei segreti artigianali e la facoltà di diseredare i discendenti furono per millenni l’unica (concreta) polizza dei vecchi contro l’emarginazione. Oggi esistono la pubblica assistenza e la pensione, i legami affettivi si sono allentati, ma quella polizza funziona ancora. Non a caso intorno ai vegliardi si avverte spesso un’atmosfera di premurosità eccessiva, pelosa, interessata.

Negli ospedali, nei cronicari e negli ospizi si vede gente equivoca (anche fra il personale) che, individuate le persone sole, cerca in tutti i modi di guadagnarne l’affetto, per farsi lasciar qualcosa. D’altra parte lo fanno da millenni i sacerdoti d’ogni credo; il cacciatore d’eredità è sempre esistito, è una figura classica della letteratura greca e romana. Più delle eredità “cacciate”, mi intristiscono quelle contestate. Le storie di fratelli che non si parlano più per un garage od un quadro. Tenere alla “roba” più che all’amore è uno degli sbagli più gravi che si possan fare. Sfuma, qui, il discorso sulle eredità e subentra quello dell’incompatibilità fra Dio (amore, dare) e Mammona (denaro, avere). Lo dice anche Gesù, oltre alla ragioneria.

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Il lato goliardico di baron litron

Scusate l’inusuale lunghezza del post, ma oggi voglio parlare a ruota libera di Karl Sigmund Friedrich Wilhelm von Leutrum (1692-1755), il condottiero più noto come Baron Litron. La spada dei Savoia. Lo strenuo e vittorioso difensore di Cuneo dall’assedio gallispanico del 1744, dove i nemici “venerunt galli, sed redierunt capones” o (come cantava il popolino) il Principe di Conty “A l’è rivà da gal, ma l’è partì capon, përché ch’a l’ha castralo, Monssu Baron Litron”. Ci avevo fatto una corposa ricerca, sulla ballata di Baron Litron, per l’esame di filologia romanza. Era il 1965. Presi 30 e lode. Sua Santità Pautasso ne ha pubblicato il testo su Facebook, ma ha preso un granchio presentandola così: «Costa sì a l’è la version en piemonteis ed la Val Luserna, che em pias moto bin ed pì che cola en turineis ed Còstantino Nigra, ch’a pissa tròp fòra dal sigilìn…» , ma poi mettendo su FB proprio la versione A di Nigra. Quella più credibile (cuneese e non lusernese, giacché i barbetti ne cantano una loro terza versione, in francese, che vi risparmio, ma che non contiene la storia del battesimo rifiutato) è invece la versione raccolta a suo tempo da Don Audisio (arciprete della frazione Spinetta di Cuneo) e visibile in rete. Però questa non vuol essere una dissertazione filologica.

Mi basterà parlarvi in modo non convenzionale di Von Leutrum. Perché il popolo lo chiamava Litron? Per assonanza, certo. Ma anche perché beveva come una spugna. Goliardo ante litteram, il barone onorò per bene Bacco, Tabacco (fumò fino alla fine la sua gran pipa di Sassonia) e Venere (già sessantenne ebbe in Cuneo “almeno” due figli illegittimi, che riconobbe). Tanto che la versione di Don Audisio dice:

Ringrassio tant Vòstra Coron-a,

diso ‘na còsa, che Dio ‘n perdon-a:

fede ‘d barbet, costum d’alman,

peusso nen meuri da bon cristian!

Ma vorìa fete d’onor ben gròss,

‘n monoment a Sant’Ambreus,

“Costa sità, che mi l’hai salvà,

e tante volte scandalisà”

Veuj pa ch’a ‘m buta ‘na lustra eterna

l’è mej sotreme ‘nt la Val Luserna…

In quel “tante volte scandalisà…” c’è la prova del Leutrum sanguigno, militare di ferro, ma “bon vivant”. Infatti, oltre a morire di cirrosi epatica, soffrì anche di gotta. Era basso, tarchiato, simile nel fisico all’attuale Russel Crowe. Fu fatto governatore a vita di Cuneo, ma solo dopo l’insperata vittoria, e dico insperata perché in una gara al “vai avanti tu che a me scappa da ridere”, la preponderanza delle forze franco-spagnole (rapporto dieci a uno) aveva fatto rifiutare quel comando a ben tre nobili, prima di lui. Persino “re Carlin” si era barricato a Saluzzo con 20mila uomini, e si era deciso a marciare in soccorso del barone solo dopo 40 giorni d’assedio, quando aveva visto che, contro ogni previsione, Cuneo teneva (e l’autunno, stagione allora letale per gli assedianti, era ormai arrivato).

Carlo Emanuele III, il bigotto! Altro che trombette e canon! Volle tentare di battezzare Leutrum in punto di morte solo perché lo imbarazzava avere un “prim general” protestante. Quel re fu così ligio al Papa da catturare in Savoia e incarcerare a Torino fino alla morte, per compiacere la Chiesa che lo perseguitava, l’eminente giurista Pietro Giannone. Fu così baciapile che gli universitari torinesi, per poter dare gli esami, dovevano provare di essersi confessati e comunicati!  Fu così pretesco che (nonostante il “mi te fareu ‘na cassia d’or, mi te fareu d’un grand onor” della canzone) fece in modo che la lapide in memoria del barone, da sistemare alla chiesa valdese del Ciabàs dove lui aveva voluto essere sepolto, non giungesse a destinazione. La pietra fu spaccata da zelanti realisti durante il trasporto, e la tomba restò anonima per quasi 170 anni. Per fortuna se ne conosceva il testo, e si poté rifarla: quella che c’è oggi a Luserna è stata scolpita nel 1920!

Leutrum era davvero un ganzo. Per quello il popolino l’adorava. A Cuneo vinse anche persuadendo i suoi amici valdesi a scatenare la guerriglia in alta valle, alle spalle dei francesi, disturbandone i rifornimenti. E con quell’efficace esempio convinse il Gran Cancelliere Marchese D’Ormea, chiuso in Mondovì, a far distribuire 10mila moschetti ai contadini, per far la stessa guerriglia a sud, alle spalle degli spagnoli. Vinse perché era testardo, ma anche pragmatico: sapendo di avere dei potenziali disertori nei battaglioni sabaudi francofoni, per liberarsene mandò quei reparti fuori Cuneo in pattuglia, prima che i nemici arrivassero, per dar loro l’occasione di scappare. Disertarono in 240. “Meglio averli davanti che alle spalle” commentò il barone. Ma poi, chiuse le operazioni di fortificazione e giunto il nemico sotto le mura, fece innalzare una forca ad ogni crocevia di Cuneo, dove veniva impiccato chiunque fosse sorpreso a tentare la diserzione, a rubare nelle case bombardate, a barare sulle razioni o a comunicare con gli assedianti. Questo era Leutrum. Poi, se uno dice che i negri hanno il ritmo nel sangue e i tedeschi ci hanno la guerra, passa per cultore dei luoghi comuni. Fanculo.

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Per un punto, Martin perse la Kappa

In Italia circolano 31 milioni di veicoli (uno a testa, calcolando solo gli italiani in età da guida) e il 30% di tutte le entrate fiscali dello Stato viene dall’auto. Ora ci sono addirittura le ganasce fiscali e la patente a punti. Tra quelle e i punti tolti, il rischio di restare appiedati è concreto, e credo che questo sia l’evento che può cambiare di più la vita, oggi, dopo la perdita di un parente stretto o del lavoro. Ma nessun atomobilista si mobilita. Solo qualche associazione di consumatori mugugna (invano) sulle mazzate economiche (caro-posteggi, pedaggi, carburanti, RC…) che continuano a colpire l’auto. Eppure sfido chiunque a seguire una macchina a caso, che faccia una trentina di Km al giorno (quella d’un pendolare di prima cintura, ad esempio), senza avvisarne il conducente.

Codice alla mano, se in una settimana costui non avrà commesso infrazioni per venti punti (il che significherebbe via la patente) mi mangio una biscia cruda con la pelle. Si può perder la patente solo per aver dimenticato due volte in due anni di allacciare la cintura. Io la uso, la cintura, e da decenni prima che diventasse obbligatoria. Ma che lo sia diventata mi dà fastidio, per principio. E’ come se mi vietassero di uscire senza cappotto d’inverno. Il cellulare, poi! Si sa che il vero momento pericoloso non è quando parli, ma quando spippoli sui tasti. Eppure il codice, col ‘viva voce’, te lo lascia fare. Se ti stampi digitando il numero, pazienza. Se vai fuori strada cercando la stazione sull’autoradio, idem. E la cazzata dell’etilometro? C’è chi è brillo con un sorso e chi fa l’asse d’equilibrio con due litri in corpo, ma la legge concede limiti così bassi che se si acquattassero all’uscita d’un pranzo nuziale fotterebbero la patente anche al prete.

Il guaio è che si acquattano davvero. Specie per la velocità. E’ diventata, quella delle multe, una delle principali voci d’entrata nei bilanci dei Comuni. Non c’è stata alcuna revisione dei limiti di velocità urbani, che pure erano stati tarati per veicoli e fondi stradali di mezzo secolo fa, quando i freni erano a tamburo e gli asfalti erano lisci. Oggi, coi freni a disco, l’ABS e gli asfalti super-ruvidi, il limite dovrebbe essere almeno di 70 Km/h (che infatti è la velocità cui vanno tutti). Invece i radar s’acquattano (apposta) nei corsi più larghi e liberi, e ciao patente. Lasciatemi sognare: basterebbe, a pareggiare i conti, una leggina semplice semplice: per poter multare con la videocamera e gli autovelox, ogni giunta comunale deve accettare che vengano tolti punti alla patente del sindaco, e poi degli assessori, dei consiglieri e via a scendere fino a vigili e impiegati, ogni volta che un motociclista cade per colpa dell’asfalto pieno di buche. Credo che telecamere e radar sparirebbero d’incanto. 

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